Il Parlamento Europeo ha votato “no” alla direttiva sul copyright. Libertà salva? Non proprio. Il provvedimento non passa per soli 40 voti. Ma già a settembre un nuovo provvedimento verrà messo al vaglio dell’assemblea di Strasburgo. Tuttavia, quanto definito dal Parlamento Europeo sembra ben lungi dall’essere garantista quanto, al massimo, tirannico.
Il Parlamento Europeo raccolto in seduta plenaria attorno agli scranni di Strasburgo ha votato “no” alla direttiva sul copyright di cui si parla ormai da qualche giorno. L’aggiornamento delle regole sul diritto d’autore erano ferme, in Europa, dal 2001, anno in cui Internet non era ancora la realtà che è oggi. Tuttavia, le nuove regole, più che garantire la salvaguardia di un marchio, minavano la libera circolazione di creatività ed informazioni, mettendo a repentaglio comportamenti ormai assodati.
Il voto, che ha negato la direttiva così come era stata scritta, non limita però le azioni in un tempo indefinito. Già a settembre un nuovo provvedimento – che rivisiterà in maniera più o meno approfondita quanto già scritto nella prima sede – verrà messo al vaglio del Parlamento. Perché, a ben vederci, la tutela del copyright e del diritto d’autore è cosa sacrosanta. Tuttavia, quanto definito dal Parlamento Europeo sembra ben lungi dall’essere garantista quanto, al massimo, tirannico.
I voti che avrebbero favorito il passaggio della direttiva sono stati 278, mentre quelli contrari 318 (cui vanno aggiunti i 31 astenuti). Sono stati solo 40 i voti che ci hanno permesso di goderci internet così come lo conosciamo: una manciata. Tuttavia, questo allontana l’incontro tra Commissione Europea, Consiglio Europeo e Parlamento Europeo per discutere in maniera più definitiva la questione. Già nella primavera 2019 si sarebbero dovuti adottare alcuni degli articoli scritti sulla regolamentazione, con l’implementazione da parte di tutti gli stati membri per il 2021. Adesso, i tempi si dilatano.
I due articoli che hanno gettato nello scompiglio la rete sono stati, in particolare, l’11 e il 13. In generale, diversi esperti hanno definito la legge in questione non essere comunque sufficientemente chiara perché si potesse considerare appropriata. Tuttavia, entrambi gli articoli hanno, al loro interno, alcuni elementi positivi e altri negativi. Nel dettaglio, l’articolo 11 prevede una compensazione, da parte dei giganti della rete che si comportano come “repository” di contenuti editoriali, verso quegli editori che producono i contenuti. Sono i link che si vedono comparire, ad esempio, su Facebook, che con il titolo, un sottotitolo e un’immagine vogliono “spostare” il lettore da Facebook al sito dove il contenuto è pubblicato per intero. Da qui il termine “link tax”, definizione informale di questo articolo.
L’articolo 13 ha connotati ben più inquietanti del precedente articolo 11. Esso infatti prevede che le piattaforme online costruiscano algoritmi capaci di controllare ciò che i singoli utenti carichino su di essi, in modo da evitare in partenza la pubblicazione di contenuti soggetti a copyright. In pratica, sarebbero le stesse piattaforme a costruire tecnologie censorie, limitando ulteriormente la libertà d’informazione. Già il fenomeno della “Filter Bubble” – secondo cui l’algoritmo dei social network più in voga tende ad accostare ai diversi utenti i contenuti più aderenti alle sue aspettative, di fatto creandogli uno schermo impermeabile a opinioni diverse dalle proprie – ha il difetto di annacquare la libertà di informazione. L’articolo 13 – così come percepito attualmente – gli permetterebbe di farlo “a norma di legge”. In ogni caso, trovare tutele che salvaguardino il diritto d’autore nel mondo digitale è, e deve essere, un elemento di primaria importanza per l’Europa. Fa strano, tuttavia, pensare che il motore principale per il garantismo rischi, da un certo punto di vista, di diventare il primo appiglio di un controllo quasi nazista.
Orlando Falena
La Nuova Bussola Quotidiana, 6 luglio 2018