Adeline Allen, docente presso la Trinity Law School, ha pubblicato sull’Harvard Journal of Law and Public Policy, un articolo sul tema dell’utero in affitto, intitolato Surrogazione e limiti alla libertà contrattuale: verso l’essere più pienamente umani.
L’autrice si concentra sulla dimensione contrattuale, sostenendo che se esiste un diritto fondamentale per i cittadini di essere liberi di stipulare contratti tra loro, questa libertà deve essere limitata dal governo al fine di evitare lo sfruttamento della parte più povera e più debole. Stabilendo confini attorno alle prestazioni che una parte può retribuire all’altra, lo Stato garantisce una rete di sicurezza per la salute e la libertà di tutti i cittadini (non solo quelli che possono pagare di più).
Nel testo si evidenzia la natura dello sfruttamento dei contratti di utero in affitto sulla base di una relazione sociale squilibrata/sessista; l’iniquo carico di rischi per la salute sulla madre surrogata; e la posizione del bambino, ignorato all’interno del dibattito, che non può dare il consenso a essere separato a vita da sua madre. Allen ricorda che pochi casi sono veramente “altruisti” laddove, cioè, la surrogazione è gratuita (mai, però, completamente perché la procedura ha costi elevati a prescindere dal fine lucrativo della madre surrogata). Anche in questi casi, tuttavia, i contratti di utero in affitto mettono sempre le donne in una posizione di vulnerabilità psicologica e fisica.
Potremmo aggiungere molte altre considerazioni, ma vogliamo focalizzarci sul primo principio che fonda il rifiuto etico di questa pratica abominevole. Tutte le altre circostanze, infatti, sono in qualche modo contingenti e quindi relative: la donna che si presta come incubatrice potrebbe non subire alcun contraccolpo psicologico, trovarsi in ottime condizioni economiche e offrire il “servizio” con spirito di liberalità; il bambino potrebbe non ricevere alcun danno alla salute dalla procedura di fecondazione artificiale, etc. Sappiamo bene, grazie alla letteratura scientifica e ai dati statistici in formazione, che la realtà è ben diversa; ma in astratto il quadretto (apparentemente) idilliaco che abbiamo ipotizzato sarebbe possibile.
Ebbene, anche in tal caso, la pratica dell’utero in affitto resta gravemente immorale. La ragione è semplice: l’oggetto di questo atto è la produzione (in senso stretto) di una vita umana al fine di rendere “genitori” (mai come in questo caso le virgolette sono d’obbligo) quanti avessero tale aspirazione. Il figlio, tanto nella procedura commerciale quanto in quella gratuita, è trattato come cosa: compravenduto in un caso, donato nell’altro; sempre oggetto di scambio, mai frutto di un atto d’amore, piuttosto di egoismo. La sua condizione è esattamente la stessa degli schiavi nel mondo antico: li si poteva vendere o donare come qualunque altra proprietà.
Chi azzarda il paragone con l’adozione o è in malafede o non ha ancora contato fino a dieci: l’adozione interviene su una situazione pregressa e non voluta di abbandono; l’utero in affitto è strutturalmente finalizzato all’abbandono del figlio da parte della madre biologica. L’adozione è nell’interesse del minore, la surrogazione è nell’interesse degli aspiranti genitori.
Ecco il motivo per cui Adeline Allen auspica l’abolizione di questa pratica: è contraria all’ordine pubblico, ossia a quel nucleo di norme fondamentali sulle quali si regge l’intera società. La dignità della persona, che ne fa soggetto di diritto e non oggetto di diritti, rientra fra queste. Il principio di autonomia contrattuale prevede, in quasi tutti gli ordinamenti giuridici, un ampio margine di manovra per i contraenti, purché l’accordo sia diretto – come si esprime il nostro codice – «a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (art. 1322 c.c.).
Meritevoli di tutela non sono i desideri, tantomeno i capricci.
Vincenzo Gubitosi
Fonte: CBC