Che la conoscenza delle Scritture sia utile per la formazione pratica ed esistenziale del cristiano, rendendolo «completo e ben equipaggiato per le opere buone» (1 Tm 3,17), è la Scrittura stessa che lo afferma. Che la Scrittura sia il libro destinato al popolo cristiano, a tutti i battezzati, e non riservato a un gruppo particolare, a una casta, è stato più volte ripetuto dai Padri della Chiesa: nella Scrittura «il Signore parla a tutti quelli che sono nella sua Chiesa» (Cipriano, L’unità della chiesa, 12); «Il Verbo di Dio venne per tutti e raccolse insieme senza distinzione colti e incolti di ogni sesso ed età e a tutti diede i precetti della salvezza» (Cipriano, La preghiera del Signore, 28). Pertanto, possiamo dire con Agostino: «Eccovi, fratelli, nelle vostre mani, le Scritture di Dio» (Commento alla prima Lettera di Giovanni, 7,5). Che dunque l’accesso alle Scritture e la loro fruizione da parte dei credenti siano necessari è sostenuto con vigore dal concilio Vaticano II: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura» (DV 22; cfr. DV 17); «Il santo concilio esorta tutti i fedeli… ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine scritture» (DV 25). La motivazione di fondo della necessità delle Scritture è chiara: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (DV 25; citando Girolamo, Commento a Isaia, Prologo).
Se tutto questo è vero, e se inoltre è vero che le Scritture fondano la fede cristiana stessa, che nasce dall’ascolto (Rm 10,17: «La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo»), se è vero che strutturano la liturgia cristiana, che nutrono e regolano la predicazione (DV 21) e che costituiscono come «l’anima della teologia» (DV 24), tuttavia occorre riconoscere che il loro utilizzo per la concreta esistenza cristiana incontra numerose difficoltà, ostacoli e resistenze. Sappiamo bene che anche dopo il rinnovamento conciliare, dopo gli entusiasmi iniziali e in mezzo a riuscite esperienze di catechesi e pastorale biblica in diverse diocesi, ora tra l’affermazione della necessità della Scrittura per l’edificazione dell’esistenza cristiana del semplice credente e la sua concreta attuazione resta, per dirla con Luca, «un grande abisso» (Lc 16,26). Propongo pertanto una riflessione che cerchi di fuggire la retorica e cerchi di declinare realisticamente questa “necessità” della Scrittura.
il “realismo” biblico
Non la Scrittura è essenziale per la vita cristiana, ma la parola di Dio; non la Bibbia, ma Gesù Cristo. E tuttavia Gesù non lo conosciamo se non attraverso i vangeli e la parola di Dio la riceviamo in particolare dalle Scritture interpretate nello Spirito santo. Né si dà atto sacramentale senza la parola di Dio. Credo dunque che la Scrittura sia necessaria al fine di costruire una vita cristiana sana, nutrendola e sostenendola alla «sorgente pura e perenne della vita spirituale» (DV 21), cioè la parola di Dio. Dalla frequentazione delle Scritture e dall’assimilazione del loro spirito, che è lo Spirito stesso di Dio, nasce una vita cristiana non asservita al devozionalismo, non sedotta dal miracolismo e dall’apparizionismo, non svenduta a battaglie ideologiche, non ridotta a moralismo, ma attenta a discernere la presenza di Dio nella storia e nell’umano.
quale Scrittura?
Dobbiamo tuttavia chiederci: quale Scrittura? La domanda non è maldestra o inadeguata, ma realistica. Se sono importanti le Scritture nel loro insieme, il Primo Testamento nel suo legame con il Nuovo, se è vero che la Scrittura tutta conduce a Cristo, tuttavia per la vita cristiana di uomini e donne che vivono una vita di lavoro e famiglia, che non hanno particolari competenze bibliche o esegetiche, occorre suggerire il primato dei Vangeli. Come ricorda il concilio: «A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche del Nuovo Testamento, i Vangeli meritatamente eccellono, in quanto sono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro salvatore» (DV 18). I Vangeli infatti donano la conoscenza di Gesù e plasmano il discernimento di ciò che è conforme al suo volere. Come riconoscere nella storia, nel quotidiano, ciò che è evangelico e ciò che non lo è, se non mediante una frequentazione assidua dei Vangeli fino ad assimilarne lo spirito?
“come” le Scritture?
L’ascesi che le Scritture chiedono al cristiano è quella dell’ascolto. Leggere le Scritture significa attivare la capacità di ascolto, scavare uno spazio in sé per accogliere il messaggio e la presenza che ci vengono da esse. Così la lettura biblica diviene esercizio dialogico, forma essenziale di preghiera.
Un approccio esistenziale alle Scritture, e in particolare ai Vangeli, richiede poi che esse siano colte come specchio: «Impara dalla Scrittura. La Scrittura sia lo specchio del tuo volto. Impara lì» (Basilio, Omelia in Lacizis, 3). L’idea dello specchio non significa certo che nella Bibbia vediamo solo noi stessi, ma che vediamo come siamo e come potremmo diventare. L’idea patristica della Bibbia come specchio è finalizzata a una lettura trasformativa delle Scritture.
«La Scrittura si presenta agli occhi della nostra anima come uno specchio, in cui possiamo conoscere ciò che in noi c’è di bello e di brutto, possiamo verificare il nostro progresso e quanto siamo lontani dalla meta. La Scrittura racconta le imprese dei santi e stimola i cuori fiacchi e deboli ad imitarli. E, mentre richiama alla memoria le loro azioni vittoriose, rafforza le nostre deboli membra per affrontare la lotta contro il male. Le sue parole rendono meno trepidante nel combattimento il nostro spirito, che si vede posti di fronte i trionfi di tanti valorosi. Qualche volta, poi, non solo ci descrive le loro vittorie, ma ci rende note anche le loro sconfitte, affinché possiamo ricavare dalla vittoria dei forti l’esempio da imitare e vedere nella sconfitta ciò che dobbiamo temere» (Gregorio Magno, Commento a Giobbe, 2,1,1).
Si tratti di lettura personale o comunitaria, è bene ricordare che la Bibbia non parla soltanto a noi, ma anche di noi. Mentre la leggiamo essa ci legge; mentre interpretiamo il testo, il testo interpreta noi, mentre esaminiamo il testo, scopriamo che il testo ci ri-guarda (cfr. Eb 4,12-13). E scopriamo che la nostra esperienza esistenziale è criterio ermeneutico per una migliore intelligenza della Scrittura che parla della vita e alla vita.
Occorre accostare il testo come testimone di una vita che l’ha preceduto e prodotto e che tende a orientare e mutare la nostra vita oggi. La centralità della vita come elemento ermeneutico del testo ci porta a riprendere i tre momenti individuati da Paul Ricoeur in Tempo e racconto (prefigurazione, configurazione, rifigurazione) e a coglierli come i momenti del passaggio dalla vita al testo, della vita nel testo e dal testo alla vita.
che cosa nelle Scritture?
Centro delle Scritture è Cristo. Ed è di Cristo che danno testimonianza i Vangeli. Credo che per porre le basi di un’esistenza cristiana sia essenziale cercare, discernere e mettere a fuoco la pratica di umanità di Gesù attestata dai Vangeli, per assumerla come bussola per il proprio vivere.
L’umanità di Gesù rivela Dio e educa la nostra umanità. Il passaggio da operare nella lettura dei Vangeli è da Dio nell’uomo Gesù Cristo a Dio nella nostra umanità. Una fede che mettesse al suo centro l’ascolto delle Scritture e massimamente dei Vangeli, aiuterebbe la conversione della vita cristiana conducendola a porre al suo centro l’umano e a farne un’arte di vivere. Non dice forse la lettera a Tito che Cristo è venuto «per insegnarci a vivere in questo mondo» (Tt 2,12)? Se la Bibbia è una riserva di senso, questo senso trova la sua concentrazione più eloquente per l’esistenza del cristiano nell’umanità di Gesù di Nazaret. Ascoltare i Vangeli porta a scoprire che non il religioso e nemmeno il sacro, non lo straordinario e nemmeno il ritualistico, ma l’umano è ciò che narra Dio e che la presenza di Dio è testimoniata da condotte e gesti, da parole e relazioni umane, da persone umanizzate, che hanno come forma e guida del loro vivere lo stesso Gesù Cristo. Come ha splendidamente affermato il teologo Joseph Moingt: «Ciò che Gesù ha di straordinario non si situa sul piano religioso, ma umano». La lettura, personale o di gruppo, del vangelo, potrà dunque assumere questa domanda di fondo: come Gesù vive l’umano? come declina la sua umanità? quale umanità mostra in ogni episodio che i Vangeli trasmettono di lui? E possiamo specificare: Che umanità abita colui che osa scacciare dal Tempio i venditori degli animali per i sacrifici e rovesciare i tavoli dei cambiavalute? Che pratica di umanità esercita l’uomo che rimprovera i suoi discepoli che allontanano i bambini, e che abbraccia questi ultimi con tenerezza? Che umanità manifesta l’uomo che accoglie pubblicani e peccatori, mangia con loro, si lascia avvicinare scandalosamente da una prostituta durante un banchetto in casa di un fariseo e riesce a vedere l’amore là dove tutti i commensali vedono il peccato (cfr. Lc 7,36-50)? Che uomo è colui che pronuncia parole potenti come quelle beatitudini (Mt 5,1-12) che sono uno squarcio sulla vita interiore di Gesù? Che pratica di umanità vive colui che non esista a entrare in conflitto con le autorità religiose se si tratta di difendere il primato della volontà di Dio e il diritto dei poveri? Che uomo è colui che non esita a rivolgere parole dure e di rimprovero ai propri discepoli, vedendo la loro poca coscienza, la loro incapacità di ascolto e di comprensione? Che forza abita nell’uomo di cui si arriva a dire: «Mai un uomo ha parlato così» (Gv 7,46)? Che uomo è colui che sa osservare i movimenti delle nuvole in cielo per comprendere il tempo che farà il giorno dopo, e che sa osservare la natura traendone insegnamento e consolazione? Che umanità abita l’uomo che incontra tanti malati nel corpo e nella psiche mostrando capacità di con-sofferenza con loro e curandoli con dispendio di tempo ed energie? Che umanità abita colui che non esita a criticare ferocemente pratiche e tradizioni religiose e usanze sacrali come il qorban (Mc 7)? Che uomo è colui che sa leggere e interpretare con estrema libertà la Tôrâ circa l’adulterio e la lapidazione dell’adultera? Che osa controbattere a scribi e farisei, a esperti della Legge, a uomini autorevoli sul piano religioso con parole anche di fuoco? Che uomo è che sa mostrare una libertà così profonda, così distante dalle paure, dalle adulazioni, dai timori riverenziali di tanti ecclesiastici oggi?
Si potrebbe continuare a lungo. Sempre operando il dialogo tra umanità di Gesù attestata nei Vangeli e la propria umanità oggi, tra la vita di Gesù testimoniata e trasmessa dai Vangeli e la nostra vita oggi. Il vangelo appare come scuola di umanità. E la sensazione è che nella Chiesa si sia ancora molto distanti dal percepire la conversione radicale che esige questa presa sul serio della pratica di umanità di Gesù come cuore dell’esistenza cristiana. La parola di Dio riplasma l’umanità del credente a immagine dell’umanità di Dio narrata da Gesù di Nazaret.
Se la narrazione evangelica è l’offerta di una visione del mondo, essa è anche l’offerta di una pratica di umanità, l’indicazione di una via da percorrere per divenire più umani. Gesù è colui che, nella sua umanità, ha narrato Dio e che, in quanto centro e cuore dei Vangeli, lo continua a narrare anche oggi ai lettori del vangelo.
per chi e per quale fine le Scritture?
Ovvero: quale esistenza cristiana si vuole costruire? Quale immagine di cristiano adulto abbiamo? O è più diffusa nella pastorale? La semplicità e la radicalità della testimonianza evangelica possono operare una salutare destrutturazione dell’immagine del credente adulto che spesso viene identificato con il laico impegnato nelle attività ecclesiali. Alcune parole pronunciate nel 1990 dall’allora card. Ratzinger esprimono bene quanto sto dicendo:
«È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge a una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all’interno della Chiesa. In qualche modo, così si pensa, ci deve essere sempre un’attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa… Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza esser mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano».
Ovvio che dietro a questi due “tipi” stanno due impostazioni pastorali divergenti. E solo nel secondo caso la Scrittura è colta nella sua vitale importanza per la formazione della fede.
Il fine cui mira la conoscenza delle Scritture è di creare la competenza del cristiano, cioè la sua capacità di vivere il vangelo nell’oggi, di fare dell’esistenza cristiana l’arte di vivere la fede con libertà, responsabilità e creatività, attuando un discernimento alla luce del vangelo. Ma è anche di convertire la vita cristiana a quella essenzialità e semplicità verso cui, mi pare, la sta guidando, con dolce risolutezza, papa Francesco.
in “Servizio della Parola” n. 460