Il costante richiamo del Papa all’attualità dell’eresia di Pelagio denuncia l’inclinazione dei credenti a una pigrizia culturale frutto di poca apertura alla grazia divina. Il nuovo libro di Zanchi. È chi fa affidamento solo sulle proprie forze dimenticando che «ci si salva insieme», come ripeteva caparbiamente il poeta Charles Péguy; chi osserva rigidamente le regole e così si sente superiore; chi invece di annunciare il Vangelo si mette a classificare gli altri, siano credenti o no; chi rimarca solo penitenza e sacrificio dimenticando la gioia della fede; chi diventa preda di un elitarismo narcisista e autocompiaciuto; chi ha fiducia solo nelle strutture e nelle pianificazioni astratte, ignorando la concretezza della vita.
Sotto queste varie tipologie può rientrare la definizione di “neopelagiano” cui così spesso si richiama papa Francesco. Assieme al neognosticismo, è un’eresia che si presenta oggi all’interno del cattolicesimo secondo Bergoglio, che nel manifesto del suo pontificato, la Evangelii Gaudium, ma anche in molte altre circostanze ha insistito su questi due pericoli.
Cosa è il pelagianesimo?
Il neognosticismo esprime l’ideologia del “niente carne”, cioè la visione di un Dio che non si è incarnato; il neopelagianesimo invece del “niente Dio”, la concezione dell’uomo prometeico che dispone della propria esistenza contando solo sulla propria ragione.
Ma chi era Pelagio? Un monaco originario della Britannia vissuto fra IV e V secolo, che propugnava l’ideale di una vita spirituale di assoluta perfezione, ma riduceva il cristianesimo a una dottrina morale, una sorta di aggiornamento dello stoicismo. Per lui l’uomo è dotato di una «santità naturale» che lo porta a fare il bene senza necessità di un intervento divino. Insomma, la natura non ha bisogno della grazia. Il peccato originale viene cancellato. A tutto ciò si aggiungono un rigore e una disciplina assoluti, applicando radicalmente gli ideali di ascesi e di rinuncia propri del cristiano. La sua eresia come noto fu debellata da Agostino, il quale precisò come la libertà umana senza il contributo della grazia non è in grado di optare verso il bene.
Neopelagianesimo, Chiesa e contemporarenità
Ma tutto questo cosa c’entra con lo stato attuale della Chiesa? Che il richiamo del papa non sia solo un vezzo da esegeta o da storico lo testimonia un libro di Giuliano Zanchi, pubblicato dalle edizioni San Paolo col titolo Il neopelagianesimo (pagine 126, euro 10). Direttore del Museo Bernareggi di Bergamo, nonché del Museo della cattedrale, Zanchi ha al suo attivo numerose opere in ambito teologico e artistico, fra cui Il destino della bellezza (Ancora 2008) e Prove tecniche di manutenzione umana. Sul futuro del cristianesimo (Vita e Pensiero 2012). Nel volume l’autore ricostruisce perfettamente sia il contesto storico in cui si radicò l’eresia pelagiana sia le motivazioni cha hanno spinto l’attuale pontefice a richiamarne oggi il pericolo per i credenti, ma la parte del libro che più ci pare interessante sottolineare è quella relativa alla situazione della cultura cattolica oggi.
Egli vede il rischio di «una Chiesa che diserta il terreno della cultura comune» e che evita di «familiarizzare con il continuo ruminare dell’uomo», di un cattolicesimo di base avvolto da «un’inerzia diffusa» e da «una pigrizia intellettuale ormai cronica».
Eppure, dinanzi alla cultura dominante del «disincanto radicale», che tende a schiacciare l’uomo solo alle sue componenti biomeccaniche, che premia l’individuo a scapito del senso di comunità, che esprime un «insieme di saperi forti» che finiscono per liquidare la parte spirituale dell’uomo, il cristianesimo è tutt’altro che in condizione di essere destinato al silenzio.
Si tratta di ribadire che «la verità non è brutta», che il significato dell’esistenza non è solo la casualità per cui l’unica modalità diventa l’esperienza del piacere e del godimento, che la felicità può essere un destino non solo temporaneo, che il legame sociale precede la libertà dell’individuo, che la misericordia può diventare una regola per impedire che la vita diventi una giungla.
Tutte sfide possibili a condizione che la fede cristiana non sia elitaria e che la Chiesa stessa non pensi di essere un baluardo contro l’inciviltà ritenendosi perfetta, l’isola felice per la salvezza di pochi: «Quello che in una società secolare – scrive Zanchi – non è più un respiro meccanico, è proprio la corrispondenza tra la verità evangelica dell’umano rivelato in Gesù e quell’originario dinamismo di approssimazione al senso di cui vive ogni uomo. Questa corrispondenza, per quanto reale e decisiva, oggi non è più evidente. Va continuamente mostrata, argomentata, riflettuta. Ma questo lavoro non è praticabile senza entrare in modo competente nel merito dei paradigmi culturali che formano l’acquario del senso nel quale ognuno di noi nuota assieme a tutti con disinvolto automatismo».
La necessità di una presenza culturale della Chiesa
Dinanzi a un pelagianesimo diffuso, quello che Augusto Del Noce denunciava come edonismo di massa, e a un vitalismo obbligatorio (non senza la «supervisione dell’apparato tecnoeconomico del mercato globale», annota Zanchi), occorre ribadire «un’etica della grazia contro un’etica della prestazione».
È la sfida del rilancio di una presenza culturale quella che emerge: «Occorre pensare quello spirituale senza di cui non si dà l’umano. La questione è insieme luogo della più attuale e strenua battaglia culturale, e del lato forse più disatteso di una pronta e attrezzata cultura credente». Sfida ardua, date le premesse, ma la Chiesa italiana in tutte le sue componenti non può non porsi davanti alla prova di rianimare la cultura religiosa del nostro Paese.
Roberto Righetto
Avvenire.it, 9 agosto 2018