La storia della piccola Eliora “Ellie” Schneider è un inno alla vita. Ogni nascita, naturalmente, lo è, ma quando si è di fronte a casi come quello di questa piccolina nata a solo 21 settimane e sei giorni di gestazione, il dato si fa ancora più evidente.
Ellie è venuta al mondo con una forte prematurità ma, per sua fortuna, ha avuto modo di essere presa in carico dall’ospedale di San Luca a Kansas City, nel Missouri: si tratta di un nosocomio che ha avviato un apposito progetto per bambini nati prima delle 24 settimane di gestazione e che sta dimostrando come, grazie al progresso scientifico e a una cura medica qualificata, il limite temporale che si segue per catalogare una vita quale degna di essere salvata o meno è in realtà una mera convenzione, peraltro in continua modificazione. Basti pensare che i prematuri nati alla 24esima settimana hanno, in media, un tasso di sopravvivenza del 6%, mentre al San Luca questo dato raggiunge il 50%.
Secondo quanto riporta Live Action, quando si è affacciata alla vita Ellie pesava poco meno di 400 grammi, eppure mostrava poche complicazioni: era debolissima, tanto che ha cominciato a piangere solo dopo quattro mesi, ma era sana e aveva solamente bisogno di essere supportata nella crescita. I suoi genitori non hanno mai perso la speranza e hanno affrontato la prima, delicata fase di vita di Ellie con serenità: «Il fatto che sia viva – ha affermato la mamma della piccola a KSBH – e abbia poche complicazioni è un miracolo. Non c’è altro modo per spiegarlo. Che tu creda o meno in Dio, è un miracolo. Non dovrebbe essere qui… e lei deve saperlo. Ha una chiamata speciale sulla sua vita».
Nel corso dei mesi la piccola Ellie è stata seguita e monitorata e ha dimostrato il suo attaccamento alla vita, facendo continui progressi: progressi che l’hanno portata a festeggiare il suo primo anno di vita!
Questo caso è sintomatico di un dato che, purtroppo, la comunità medica fatica a recepire, mettendo davanti gli standard («Al di sotto di 24 settimane il bambino non va salvato…») al dato di realtà: le soglie di viabilità si stanno progressivamente abbassando. Non a caso, «uno studio del 2015, pubblicato sul New England Journal of Medicine, sta cambiando il modo in cui la comunità medica considera la fattibilità, o la capacità dei bambini di sopravvivere al di fuori del grembo materno. Lo studio ha rilevato che “i bambini nati a 22 settimane avevano un tasso di sopravvivenza quasi del 25%, se trattati attivamente in un ospedale”».
Attenzione, però: questo non vuol dire che la nuova soglia standard vada abbassata a 22 settimane, perché significherebbe ricadere nell’errore di stabilire a priori il valore di una vita; significa semplicemente che non dovrebbero esserci standard preconfezionati, ma che ogni caso andrebbe visto e trattato nella sua unicità. Ogni bambino, infatti, come ogni adulto, ha una propria capacità di resilienza, che è impossibile e ingiusto definire a priori.
Inoltre, in relazione a quanto appena scritto, un’altra questione emerge in maniera prepotente, per chi vuole vedere: fin dal grembo materno siamo di fronte a un essere umano… più piccolo, più grande, di un certo peso o di un altro, ma sempre un essere umano. Proviamo quindi a chiederci: perché ha senso gioire per un bambino nato prematuro salvato dai medici, mentre alla stessa identica settimana gli stessi medici avrebbero potuto ucciderlo, se fosse stato ancora nel grembo materno?
Giulia Tanel
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