Mezzo secolo fa i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia ponendo fine alla rivoluzione tentata da Dubcek. Aveva cercato di rompere lo schema repressivo stalinista, ma Mosca lo smentì.
La storia europea, specie poi quella del Seicento, continua a essere una Cenerentola nelle scuole italiane (e stendiamo un velo sulla società civile, che ormai di storia non sa più nulla). Peccato: altrove il XVII secolo è stato il Grand Siècle, il Siglo de Oro: ma da noi, dopo il Risorgimento, non si è in fondo mai usciti dalla logica del «secolo delle preponderanze straniere». Se le cose stessero altrimenti, sapremmo che un tragicomico evento del 1618, la cosiddetta “defenestrazione di Praga”, segnò l’inizio di quella guerra che, protrattasi fino al 1648 (per quanto in realtà si trascinasse fino al 1659), venne definita appunto Guerra dei Trent’Anni. Una lunga fase-cerniera, che trasformò profondamente la storia dell’Occidente. Si può dire che con quella guerra, momento culminante della dinamica inaugurata dalla Riforma protestante, cessasse di esistere la compagine socioculturale della Cristianità occidentale che aveva ancor coscienza nonostante tutto di una sua intrinseca unità e prendesse vita l’Europa moderna, caratterizzata dalla laicizzazione della cultura e dall’affermarsi degli Stati assoluti. Chi con la storia ha più dimestichezza, si sorprende a pensare che in quel di Praga il numero otto sia tutto sommato di cattivo augurio. La storia della Cecoslovacchia indipendente si concluse nel 1938 sotto gli occhi attoniti dell’Europa. E se quest’anno si commemora – molto in sordina, è vero – la data “europea” del 1618, e ancor dolorosamente si pensa alla catastrofe politico-diplomatica del 1938, viva è invece la memoria di quel 20-21 agosto del 1968: ed è impossibile dimenticare le foto e i filmati dei carri armati sovietici (e di altri paesi del Patto di Varsavia sulla piazza di San Venceslao, con i carristi che escono dalle torrette dei loro giganti d’acciaio un po’ disorientati dinanzi alle proteste pacifiche ma accorate dei praghesi; è impossibile dimenticare – cinecamere e telecamere nel furono testimoni – l’immagine terribile di quel ragazzo di Praga, lo studente Jan Palach, che si cosparse di benzina e si fece bruciar vivo per protestare contro quell’aggressione e quell’invasione.
Dodici anni prima c’era stato l’“aiuto fraterno” dell’Unione Sovietica di Chrušcëv all’Ungheria: e la rivolta di Budapest dell’autunno del 1956 – chi era ragazzo allora la chiamò a lungo, romanticamente, “rivoluzione” – aveva segnato profondamente l’Europa e il mondo del dopoguerra, aveva fatto cadere molte illusioni che a proposito della possibilità della fine della Guerra Fredda si erano aperte pochi mesi prima, nel febbraio, con il XX congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e l’avvio del processo di destalinizzazione. I fatti del 1956 avevano segnato profondamente l’esperienza di tutte le sinistre occidentali: a partire dagli intellettuali v’erano state dimissioni clamorose nei partiti Comunisti di tutta Europa, mentre i partiti progressisti e socialdemocratici, tradizionalmente legati da rapporti d’alleanza o comunque di simpatia a quelli comunisti, intrapresero un differente e irreversibile cammino. Ma il decennio successivo era destinato a modificare ancor più profondamente il quadro politico internazionale e a mettere in crisi rapporti di forza considerati fino ad allora stabili, mentre nuove realtà premevano all’orizzonte. In tutto il mondo si stava accentuando il processo di decolonizzazione, che faceva emergere situazioni fino ad allora impensabili e dava luogo a un vasto movimento di paesi “non-allineati” i quali cercavano di uscire dalla logica bipolare affermatasi dopo il 1945; nel sudest asiatico da “crisi indocinese” dava luogo alla dinamica che avrebbe condotto alla guerra del Vietnam, autentica plaque tournante della stessa vita e della categorie morali del mondo statunitense; nel Vicino Oriente, la crisi di Suez e la guerre arabo-israeliane del 1956 e del 1967 avviavano un processo dinamico dal quale gli esperimenti “laici” del mondo arabo sarebbero usciti sconfitti; la rivoluzione popolare e il castrismo, a cui molti avevano guardato sulle prime con sufficienza come a uno dei tanti episodi di caudillismo centroamericano, finiva con l’incidere profondamente sull’equilibrio mondiale fino a conseguenze che nel 1962 condussero sull’orlo di un nuovo conflitto; mentre negli anni 60 i due grandi esperimenti comunisti mondiali – quello sovietico e quello cinese – entravano in conflitto, un utopistico e per molti versi patetico eppur possente e trascinante movimento pacifista soprattutto giovanile e studentesco (ricordate il Flowers Power?) preludeva a quel Sessantotto al quale ancor oggi tanti di noi guardano come a una sorta di mito sia pure mancato, a un orizzonte perduto.
Al di là di quella che continuava a essere la Cortina di Ferro, a lungo quasi nulla parve muoversi: eppure, dopo le rivolte polacca e berlinese del 1953 e il grande episodio ungherese di tre anni dopo, le istanze di rinnovamento e soprattutto la richiesta di libertà e d’indipendenza nazionale erano un fuoco potente che covava sotto le ceneri della paura e del conformismo. Nell’Europa del blocco socialista la Cecoslovacchia era, dopo la Germania Democratica, il paese economicamente e industrialmente all’avanguardia e quello dove il ceto intellettuale aveva maggior peso politico. Fu il grande Adenauer, europeista convinto, a replicare una volta a chi gli prospettava un’unione europea esclusivamente occidentale, affermando che «non è possibile pensare a un’Europa senza Praga». E proprio da lì giunse più forte una volontà “riformista” che non è azzardato definire, oggi, rivoluzionaria. Un comunista slovacco nato nel 1921, Alexsander Dubcek s’impose fino dal 1966 all’interno del partito comunista cecoslovacco criticando l’indirizzo ancora sostanzialmente stalinista del segretario Novotny e chiedendo ampi margini d’indipendenza dall’Urss, decentramento economico, misure antidirigistiche e antiautoritarie nella vita civile. Fu questo il “nuovo corso” inaugurato nel gennaio del 1968, allorché Dubcek fu eletto primo segretario del suo partito: la sua politica ottenne un consenso entusiastico nel suo Paese e la sua popolarità divenne inarrestabile in tutto il mondo.
Proprio per questo restammo tutti senza fiato quando, nell’agosto dello stesso anno, le truppe sovietiche e quelle del Patto di Varsavia (Repubblica tedesco-democratica, Bulgaria, Polonia, Ungheria) entrarono in Cecoslovacchia e a Praga. Avevano i cannoni ad “alzo zero”, anche se non spararono. Dubcek, che aveva ricevuto una durissima “scomunica” diretta da parte dello stesso Breznev (vedi qui accanto l’estratto da un colloquio telefonico intercorso tra i due sette giorni prima dell’invasione sovietica, ndr), comprese che non c’era altro da fare se non piegarsi. Rimase segretario del partito fino all’aprile dell’anno successivo, quando fu sostituito da G. Husak. Dopo aver ricevuto alcuni incarichi secondari Dubcek, oggetto di critiche molto severe per quel che aveva fatto come capo di governo, fu espulso dal partito.
Sembrò che, dopo la luminosa schiarita durata pochi mesi, le nubi del cielo sopra Praga si chiudessero per sempre. Ma quel che in Ungheria era stato stroncato con al forza nel 1956, quel che nel 1968 si era evitato in Cecoslovacchia con un misto pesante eppure abilissimo di burocratismo, conformismo e sistema poliziesco, si sarebbe ripresentato con energia e maturità ancor maggiori nella Polonia di Solidarnosc e poi nella stessa Unione Sovietica scossa dalla mancata soluzione del problema afghano.
Bisognerà riscriverla, prima o poi, la storia dell’Unione Europea. E bisognerà cominciar a studiarla nelle scuole come nei paesi civili si studia la storia patria. Quel giorno, Dubcek, oggi quasi dimenticato, riceverà dai cittadini europei il riconoscimento che gli spetta.
Franco Cardini
Avvenire.it, 18 agosto 2018