Senza amicizia e carità, la scienza vede solo le budella dei pazienti

By 1 Settembre 2018Salute

Le storie di quattro testimoni straordinari al Meeting per sviscerare l’enigma della sofferenza.

Andrea Mariani oggi ha una qualifica lunga così, è professore di ostetrica e ginecologia alla Mayo Clinic Rochester, Minnesota. E come ci è finito in Minnesota, in uno dei migliori e più importanti ospedali degli Stati Uniti? «Io faccio Chirurgia robotica, entro in sala, il paziente dorme, lavoro staccato da lui, vedo solo le sue viscere, le budella. È facile, sapete, separare l’atto tecnico dal volto del paziente, separare l’atto dal suo fine. Cosa mi permette di non fermarmi alla budella?». Questa è la storia di un grande chirurgo – e diciamolo subito, lode al Meeting di Rimini per aver iniziato il suo primo giorno di manifestazione ieri invitando Mariani a dibattere di “Carità e scienza, il mistero della relazione di cura” insieme e ad altri tre altri grandi testimoni come Roberto Bernabei, presidente di Italialongeva; Mariella Enoc, presidente ospedale pediatrico Bambino Gesù e Rose Busingye, infermiera e responsabile Meeting Point International di Kampala. Lode al Meeting, sì, perché ci vuole coraggio ad arrivare al cuore dell’enigma della sofferenza così ben sintetizzato nella frase della mostra qui a Rimini su Giobbe: “Il cristianesimo crea più che risolvere il problema del dolore, poiché il dolore non sarebbe in sé un problema se, insieme con la nostra esperienza quotidiana di un mondo doloroso, non avessimo ricevuto una sufficiente garanzia del fatto che la realtà ultima è giusta e amorosa”.

Dicevamo di Mariani. Quando ha iniziato come chirurgo aveva solo due maestri, Dario Maggioni, che gli aveva insegnato a dare i primi punti e Luigi Frigerio, che gli aveva insegnato che dare i punti non era abbastanza. «Poi accade che nel 1996 ho l’opportunità di andare come a Rochester, dove nevicava tutto l’anno, non avevo un soldo, la famiglia era lontana e andavo al lavoro con la bici prestatami da un prete. Mi ricordo la bellezza, la perfezione e l’armonia della Mayo Clinic, pensavo che quel luogo fosse la risposta ai punti che non bastano. Alla fine del mio anno andai dal mio maestro, gli consegnai i dati raccolti dicendo di darli a qualcuno che potesse pubblicarli e farne un buon lavoro. “Tu hai fatto un buon lavoro, tu vali, devi fermarti e pubblicarli tu”, rispose. Ecco, le cose andarono più o meno così, con questo professore che mi ospita in casa sua e scommette su di me. E lì inizio a capire che con la chirurgia potevo curare un paziente alla volta, con la scienza tanti di più».

Questa gratitudine spinge Mariani a fare ricerca, anche il migliore ambiente però come i punti non basta, ci sono i grant, i livelli di eccellenza, il problema dell’efficienza, il cuore da solo e la generosità del cuore si raffredda, non resta fedele. «Rischiavo di vedere le budella, non più il paziente. Senza scienza non potevo curare il paziente ma senza carità, senza il suo volto, la scienza perdeva. Cosa tiene insieme scienza e carità, faccia e budella, desiderio e gratitudine? Ve lo dico io, occorre un’amicizia. Un affetto potente, uno come te, che cammina con te. Occorre un amico». Uno come Nadeem Abu Rustum. All’inizio era un nemico, si erano conosciuti in Giappone, Mariani guru della linfoadinectomia, Nadeem operava i linfonodi sentinella. Due posizioni diverse, stesso amore per la verità, stessa pasta di uomo. Infatti diventano amici, si accrocchiano, mettono insieme scienze e conoscenze, qualcosa che scombina piani e pratiche della grande Mayo e su cui Mariani investe e scommette senza paura. Il frutto di quell’amicizia diventa uno studio internazionale e nuove linee guida che presto cambieranno le cose.

E diventa un messaggio, quello che Nadeem ha mandato al Meeting dove Mariani lo aveva invitato: «Trovate i vostri amici. Andrea, vorrei ci fossimo conosciuti vent’anni fa. Se tornassi indietro di venti, trent’anni io cercherei amici disposti a camminare con me». È questo l’antidoto al parente come budella, qualche tempo fa Mariani ha chiesto a una donna perché fosse triste (doveva andarsene, non doveva chiederglielo, aveva fetta, eppure quel viso era inspiegabilmente triste), «non hai il cancro, il tuo intervento è stato semplice, non hai motivi per essere triste». E lei gli racconta di un figlio disabile a casa da accudire da sola 24 ore su 24. E Mariani e la Mayo cambiano il modo di curarla per aiutarla. «Ecco la mia storia, una storia che parla di scienza e di amicizia perché la più grande scoperta è che l’amicizia aiuta la scienza a restare attaccata alla verità. A non vedere più in un letto budella e pelle salvata, ma una madre preoccupata per il suo bambino».

E pensare che fino a poco tempo fa la relazione medico paziente era il silenzio, e il medico della Cittadella di Cronin un eroe buono dal volto umano. Poi è arrivato il consenso informato, un clamoroso passo avanti per qualcuno, ma a cosa è servito veramente? «Grossomodo a evitare danni all’istituzione. All’inizio dei primi anni Ottanta mia sorella si ammalò di leucemia e siamo andati a Seattle per un trapianto di midollo – racconta Roberto Bernabei -. In Italia ancora non se ne sentiva parlare, ma negli States il consenso informato era pratica già diffusa da tempo. Ci consegnarono un report dettagliatissimo dell’intervento, al termine del quale veniva specificato che mia sorella avrebbe avuto il 50 per cento delle possibilità di rimetterci la pelle. Lei non parlava inglese. Non le tradussi quella parte, a che serviva? Le spiegai che come tutti gli interventi anche questo comportava dei rischi. Ci vuole buon senso e umanità per non accanirsi contro la speranza, non è compito del medico sottrarla a chi entra in sala operatoria. Senza che questa diventi un alibi per il medico per non compromettersi con la situazione gravissima del suo paziente».

Ci sono tre novità a questo proposito. Nel 2014 il nuovo codice deontologico della professione medica riconosce per la prima volta il tempo della comunicazione medico-paziente come tempo di cura. La medicina delle “4 p”, predittiva, personalizzata, preventiva e partecipatoria, ha fatto della genetica di ciascuno il territorio della miglior cura e diagnosi. E tuttavia, «il Padreterno ha pensato di giocarci un brutto scherzo. A scompaginare genetica, personalizzazione, il rapporto medico paziente, ci ha pensato l’invecchiamento della popolazione, oggi ci sono questi quattro milioni di anziani soli in Italia, di cui tre milioni donne, che non soffrono di una malattia, ne hanno cinque o sei, un universo di patologie per cui non esiste un’unica cura. Io mi occupo di loro. E ho capito, da geriatra, che per occuparmi della loro interezza, della loro persona non posso fare la differenza limitandomi alla cura di ogni singola patologia, posso però farla intervenendo sul livello di disabilità prodotte da queste patologie».

Far sì che un anziano possa andare in bagno è territorio di scienza o di carità? «Sapete, in Italia ci sono oltre un milione di malati di alzheimer ed è significativo che due delle più importanti case farmaceutiche abbiano annunciato di ritirarsi dalla ricerca di una cura per questa patologia perché costa troppo. Il costo del paziente fa a cazzotti con la carità. E sappiate che è questo che diventerà il territorio del diavolo nei prossimi anni: qui vi diranno, e le sirene suoneranno una musica deliziosa, che la dolce morte rappresenterà un atto di carità per queste persone. Badate bene, dovremo stare pronti perché qui si gioca la partita decisiva per l’uomo». Nel dipartimento di Bernabei insieme agli anziani ci si prende cura di 400 ragazzi con la sindrome di down. Che è una sindrome dell’invecchiamento precoce, «è giusto che un geriatra si occupi di adolescenti? Io non lo so se è giusto per la scienza, so che funziona, i risultati in termini di scambio tra quello che apprendiamo con questi ragazzi e trasferiamo sugli anziani e viceversa è straordinario, so che facendo cose un po’ anomale si fa del bene. Si fa una scienza migliore».

E cose anomale ne ha fatte Mariella Enoc il giorno in cui arrivò, tortuosamente, al Bambino Gesù di Roma. Non sapeva cosa fosse un ospedale pediatrico, era un manager della sanità, si occupava di rimettere in sesto gli ospedali cattolici, di recuperare il loro spirito originario facendo tornare i conti, e si occupava soprattutto di strutture per anziani. «Al Bambino Gesù conobbi il mistero del dolore umano, capii che la relazione di cura altro non poteva essere che uno sguardo completamente diverso. E che l’ospedale doveva essere una comunità dove ciascuno, come può, con le risorse a sua disposizione e i suoi compiti, diventa capace di questo sguardo. Vi leggo questo, lo ha scritto Daniele Mencarelli in un libro bellissimo, faceva l’operatore sanitario da noi prima, sapete? Lui puliva i pavimenti e ha pubblicato questa cosa, sulla nostra casa degli sguardi. Dice, vedo genitori e figli, tanti, tantissimi, come soldati dello stesso esercito, senza capelli, mascherina, con una magrezza che non ha casa se non nella malattia. Scrive: tutto mi appartiene e io e appartengo tutto, questo mi dice il cuore, annientato da questa moltitudine attesa. Vedete, ognuno contempla il mistero come vuole, come può, anche passando lo straccio per i pavimenti. Perché la malattia è uno sguardo, è una soglia esistenziale, ce lo insegnano i nostri piccoli pazienti, ci insegnano che la relazione è la rivelazione che nasce da un incontro, non è un atto di volontà».

Enoc racconta i lunghi “incontri di silenzio” fatti dal Papa tra i piccoli del Bambino Gesù, diceva solo ogni tanto «quanta sofferenza Mariella, quanta sofferenza». «Non ha mai detto le frasi di un prete, a chi gli ha chiesto perché i bambini soffrono ha risposto solo “io non ho risposte, so solo che il Padre ha permesso che suo figlio andasse in croce”. Questo è uno sguardo umano, cioè che rende umano l’incontro è capire che siamo di fronte a un mistero». Per questo per Enoc la prima forma di carità è la scienza, «chi ruba un denaro per permettere la cura e la speranza di uno solo di questi bambini commette uno dei delitti più grandi. Così come chi si appropria della scienza, che è un bene di tutti. La scienza non ci appartiene, si dona, lo facciamo ogni giorno dal Centrafrica alla Siria andando a formare i medici sul posto. Non è un possesso la scienza, è un cammino, come la carità, come la fede, come la speranza di Péguy. Che davanti ai nostri bimbi possa sempre allora camminare questa fede, carità e speranza perché è questo che vuole ogni uomo sulla faccia della terra».

Da Roma all’Uganda. Perché questo cammino di Enoc, la battaglia di Bernabei, l’amicizia di cui parla Mariani tesse i giorni di Rose nel quartiere più povero di Kampala e si fa strada in tutto il mondo per vie misteriose e felici come la più misteriosa delle malattie. «Ma cosa rende i malati felici? Le pastiglie che diamo loro? No, io ho capito che a rendere felice un malato è la stessa cosa che rende felice me. Io lavoro coi malati di Aids, non funziona nulla come vuole la medicina, tu dai loro gli antiretrovirali e li buttano nella spazzatura, dai soldi per il cibo e li spendono in alcol, mandi a scuola i loro figli e li ritrovi a giocare nell’immondizia, offri amicizia e ricevi in cambio tradimenti. All’inizio era proprio così, ogni giorno vedevo gente morire o che mi deludeva e pensavo che lo studio della medicina non mi avesse addestrata o equipaggiata a tutto questo. Poi, un giorno, ho incontrato don Luigi Giussani. E sono diventata “sua”, il suo piccolo puntino nero. Sapete cosa succede quando appartieni a qualcuno? Io ho cominciato a vivere e lavorare quando qualcuno mi ha detto “tu sei mia, tu hai un valore infinito”. E in quello sguardo, ho riconosciuto la verità della mia vita, tenerezza per la mia vita e per la vita degli altri. Di chi sono? Quando questa domanda ha avuto risposta in alcune facce precise sono diventata libera. Appartenendo. Avendo un legame. Non hai paura se sai di chi sei. Se sei libero non pretendi perché hai già tutto. Mi lamentavo del mio niente, eppure qualcuno era morto per salvare il mio niente. Tutto ha allora guadagnato una intensità e valore che non potete immaginare. La carità cos’è se non una pazzia divina, il vibrare nelle tue viscere, nella tua malattia, povertà, meschinità, di una appartenenza».

Un video della scuola nata a Kampala dal desiderio delle donne curate da Rose, arrampicate come lei sull’ignoto, a cercare ovunque bellezza in Africa per non vedere solo la bruttezza che siamo, di comunicare questa appartenenza anche ai loro bambini, chiude l’incontro. Queste donne hanno venduto decine di migliaia di collane e oggetti artigianali in tutta Europa per farlo. Gli uomini hanno partecipato col Meeting point international guidato da Rose a una raccolta di fondi per aiutare famiglie colpite negli Stati Uniti dal terremoto: spaccare pietre per ricavare agglomerati per costruire le case. L’Africa che aiuta gli Stati Uniti. La scuola si chiama Luigi Giussani High School. E torna tutto, parlando di scienza e carità, torna il cammino, la battaglia, l’amicizia e motivo per cui questa sala del Meeting è davvero così piena.

Caterina Giojelli

Tempi.it, 20 agosto 2018