Il prossimo 28 dicembre saranno trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Pietro Prini, uno dei padri italiani dell’esistenzialismo cristiano.
Con Luigi Pareyson e Dario Antiseri, ha rappresentato più di ogni altro il tentativo di elaborare una filosofia orientata in senso cristiano che non guardasse solo agli schemi del passato, come la metafisica riproposta da Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi, ma che accettasse in pieno le sfide del mondo contemporaneo, quelle della scienza e della tecnica in primo luogo, e contemporaneamente non mettesse da parte le questioni di senso che interrogano l’uomo postmoderno, dalla vita alla morte all’esistenza del male.
Con Prini chi scrive ebbe anche una certa familiarità: i ricordi vanno al nostro primo incontro, in occasione del colloquio tenuto a Saint Vincent su iniziativa di Jader Jacobelli su «Crisi e fede». Il giornalista televisivo promuoveva allora ogni anno nella località valdostana un confronto a tutto campo fra pensatori di varia estrazione, ricavandone poi ogni volta un libro per Laterza. Di Prini mi impressionarono la simpatia unita alla riservatezza, la disposizione all’ascolto, l’esaltazione del silenzio.
Da allora nacque, come con altri interlocutori del colloquio (da Italo Mancini a Sergio Quinzio, da Dario Antiseri a Massimo Baldini) una collaborazione proficua con le pagine culturali di questo giornale. Anche nel suo intervento, che volle titolare “Può il credente essere filosofo?”, di fronte ai tentativi onnicomprensivi della tecnoscienza e dell’informatica che tendevano a eliminare ogni possibile scenario religioso, rammentò l’indicibilità del senso totale delle cose propria del filosofo, anche del filosofo cristiano che si arresta dinanzi al mistero. E citando il famoso ammonimento di Wittgenstein («Di ciò di cui non possiamo parlare, dobbiamo tacere»), rilevò come esso non fosse affatto un’interdizione, come l’hanno interpretato i neopositivisti e gli alfieri del pensiero analitico, ma la chiave di volta per iniziare a porsi domande. Il vero mestiere del filosofo da Socrate in poi. È infatti nell’esercizio del domandare che si colloca il pensare, visto come il ritorno al luogo dell’ascolto, in cui il silenzio non è una limitazione ma la manifestazione di una presenza che oltrepassa l’uomo.
Nato a Belgirate, sul Lago Maggiore, nel 1915, Prini è stato per lunghi anni docente di Storia della filosofia all’università La Sapienza di Roma e da lì ha esercitato il suo magistero, ispirato alla riflessione di Antonio Rosmini, Søren Kierkegaard e Gabriel Marcel.
Una filosofia del dialogo, come qualcuno l’ha definita, capace di sfuggire a ogni impostazione autoreferenziale. Così nel 1962, al convegno perugino su «Cristianesimo e filosofia », definiva il senso del filosofare nella fede: «Una filosofia della storicità, una logica della testimonianza e una fenomenologia del Sacro costituiscono altrettanti momenti o passaggi obbligati del comportamento riflessivo o critico all’interno della fede».
Come rileva Walter Minella nel contributo che compare nel volume Credere in Dio oggi e nell’uomo ancora e nonostante, dedicato a Prini con vari interventi e appena pubblicato da Armando editore (pagine 160, euro 15,00), per il filosofo Prini il primato viene assegnato all’esperienza di fede e non alla ragione; in secondo luogo, la fede è un’esperienza che attiene alla trascendenza, ma noi viviamo nella storia: perciò la fede autentica non è gelosa delle verità, da chiunque siano scoperte, non è arrogante e presuntuosa, insomma non è “chiusa” come ha chiarito papa Francesco.
Proprio questa consapevolezza lo porterà nel 1998 a scrivere un libretto che avrebbe provocato diverse polemiche nel mondo cattolico, Lo scisma sommerso, ove denunciava il comportamento differente della maggioranza dei cattolici rispetto alle indicazioni della Chiesa (uno scisma che proprio l’attuale Pontefice cerca con sapienza di ricomporre). Un pamphlet che solo una critica sommaria volle riferire soprattutto all’etica sessuale, ma che toccava e metteva in discussione secoli di predicazione cristiana basati solo sull’idea della colpa e non della misericordia. Lo evidenzia nello stesso volume su Prini ora pubblicato il saggio di Giannino Piana, che sottolinea il primato della Grazia rispetto alla Legge, della carità rispetto alla morale repressiva.
Allora anche su “Avvenire” aprimmo un dibattito ospitando le opinioni di Gianni Baget Bozzo ed Enzo Bianchi, nonché una replica alle obiezioni dello stesso Prini. Che col solito garbo negò di aver mai messo in discussione la rilevanza del male e del Maligno nell’ambito della teologia cattolica, come gli aveva imputato Baget Bozzo.
Proprio la meditazione sul male, come nel caso di Pareyson, caratterizzò anzi l’ultima fase del suo pensiero, confrontandosi con le posizioni di Niccolò Cusano, Meister Eckhart e Berdjaev. «Soltanto la carità – si legge in Lo scisma sommerso – è veramente feconda. Soltanto la carità è la potenza effettiva del cristiano e della Chiesa come tale. Lo sviluppo di un’etica religiosa della fratellanza, ostile alla violenza di ogni genere, è stata la grande forza di espressione della Chiesa primitiva».
Quell’amore cristiano che, come mi disse in un’intervista del 1993, rappresenta la resistenza contro il demoniaco del potere, ossia la forza al servizio dell’uomo contro ogni forma di asservimento. E parlandomi con franchezza, a pochi mesi dallo scoppio di Tangentopoli, non ebbe scrupoli a invitare i cattolici italiani a un severo mea culpa: «Nella crisi della nostra classe politica noi cattolici siamo tutti responsabili. Fra le diverse forme del cattolicesimo contemporaneo, la nostra, quella dei nostri intellettuali, dei nostri giornalisti e dei nostri moralisti, tranne poche eccezioni, è forse la più accomodante, la più conformista, la meno disposta ad assumersi le grane di un dissenso aperto e coraggioso».
Roberto Righetto
Avvenire.it, 17 agosto 2018