“Per il bene di un pastore, stanno arrivando al punto di rompere le relazioni con la Turchia”, dice il portavoce del presidente turco Erdogan, Ibrahim Kalin. Già dice tutto sul diverso valore attribuito alla persona e alla sua libertà negli Usa e in Turchia e riassume bene l’origine di questa crisi, che è prima religiosa, poi politica infine economica.
“Per il bene di un pastore, stanno arrivando al punto di rompere le relazioni con la Turchia”, dice il portavoce del presidente turco Erdogan, Ibrahim Kalin. Questa frase già dice tutto sul diverso valore attribuito alla persona e alla sua libertà negli Usa e in Turchia e riassume bene l’origine di questa crisi, che è prima religiosa, poi politica infine economica.
Per il bene di un pastore protestante: arrestato a Smirne nell’ottobre 2016, senza prove che portino alla sua incriminazione, accusato arbitrariamente di favoreggiamento dei mancati golpisti fedeli a Fethullah Gulen. Andrew Brunson è ancora sotto processo, ha passato quasi due anni in carcere e poi agli arresti domiciliari. E’ abbastanza palese che sarà tenuto incarcerato finché gli Usa non concederanno l’estradizione di Gulen, l’islamista, ex alleato di Erdogan, accusato (in modo altrettanto arbitrario) di aver ordito il complotto che portò al fallito golpe del luglio 2016. Gli Usa stanno dunque difendendo a spada tratta i diritti di un loro cittadino. E il suo diritto alla libertà di religione. Non è un caso che nell’islamica Turchia sia stato preso di mira un cristiano, un religioso, con la sua piccola chiesa di Smirne frequentata, a detta dell’accusa, da “terroristi curdi” e da “golpisti”. E’ su questo caso che gli Usa hanno imposto alla Turchia le prime sanzioni economiche, che consistono in dazi aumentati per acciaio e alluminio, causa scatenante della crisi della lira turca.
L’ultima speranza di risolvere la crisi con le buone è andata in fumo proprio ieri. L’amministrazione statunitense aveva appena dichiarato che, in caso di scarcerazione di Brunson, le sanzioni alla Turchia sarebbero state sospese. Ma la magistratura turca, che in questo e tanti altri casi ha dimostrato di essere molto “sensibile” alle indicazioni del potere esecutivo, ha respinto l’appello per la scarcerazione. Un tribunale di Smirne ha ribadito che il pastore americano rimarrà in custodia, in attesa del processo che si consumerà il prossimo ottobre. Brunson potrebbe essere condannato a 35 anni di carcere.
L’amministrazione Trump ha allora alzato il tiro, dicendosi pronta a imporre nuove misure restrittive se Ankara non libererà il pastore statunitense. Il segretario del Tesoro Steven Mnuchin ha dichiarato che saranno intrapresi “passi più duri”. Lo stesso presidente Trump ha contestato apertamente la Turchia per la prolungata detenzione del religioso, affermando che l’alleato nella Nato “non ha dimostrato di essere anche un buon amico”. Il presidente Erdogan ha respinto personalmente le accuse e ha avvertito che se i rapporti con gli Usa dovessero peggiorare, la Turchia è pronta “a cambiare alleanze”. Si riferisce prima di tutto alla Russia, da cui ha acquistato già sistemi anti-aerei avanzati e con cui è in rapporti sempre migliori dal momento in cui il golpe è fallito due anni fa.
Intanto il governo turco ha annunciato le misure di rappresaglia nella nuova guerra economica: dazi più alti su beni di importazione statunitensi quali alcolici, tabacco, auto, cosmetici, riso e carbone. Erdogan ha anche dichiarato l’intenzione di lanciare un boicottaggio nazionale di altri beni simbolo degli Usa, come gli iPhone. Ma l’economia turca è molto fragile e il crollo di valore della valuta nazionale, seguito immediatamente dopo l’annuncio delle sanzioni statunitensi, ne è la dimostrazione. In caso di guerra commerciale, è soprattutto Ankara a perderci. E quindi la risposta di Erdogan sarà, più che altro politica: la minaccia di cambiare fronte.
Oltre ai già citati buoni rapporti con Mosca, si nota un ulteriore consolidamento dell’asse mediorientale con il Qatar, partner dell’Iran e alleato strategico (anche se in modo molto discreto) della Turchia in tutti i dossier mediorientali, dalla guerra di Libia alla guerra civile in Siria. Tamim bin Hamad al Thani, emiro del Qatar, è volato in Turchia dove ha incontrato Erdogan e firmato un piano di investimenti per 15 miliardi di dollari, un gesto di sostegno generoso in un paese in crisi. Il Qatar, come sottolineato più volte su queste colonne, è il maggior sponsor dei Fratelli Musulmani e i suoi contatti con la galassia jihadista sunnita sono sotto la lente di ingrandimento di tutti i paesi arabi vicini.
Stefano Magni
La Nuova Bussola Quotidiano, 17 agosto 2018