A ridosso dei cinquant’anni dalla pubblicazione di Humanae vitae, il calendario ecclesiale segnala un altro importante anniversario: il 6 agosto 1993, Giovanni Paolo II siglava l’enciclica Veritatis splendor, «circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa».
Questo documento si colloca esattamente a mezza via tra il nostro presente e il documento di Paolo VI. La cronologia non è di sicuro l’unico elemento che accosta i due interventi pontifici. Quando Veritatis splendor registra che «nell’ambito delle discussioni teologiche postconciliari si sono sviluppate però alcune interpretazioni della morale cristiana che non sono compatibili con la ‘sana dottrina’», proponendosi «l’intenzione di precisare taluni aspetti dottrinali che risultano decisivi per far fronte a quella che è senza dubbio una vera crisi», evoca esplicitamente molta parte della contrastata recezione di Humanae vitae.
I due documenti hanno condiviso poi una lunga gestazione (intorno ai cinque anni): Giovanni Paolo II annunciò l’intenzione di intervenire sui «fondamenti stessi della teologia morale» nell’agosto del 1987 (Lettera apostolica Spiritus Domini, in occasione del secondo centenario della morte di sant’Alfonso Maria de’ Liguori); insieme la recezione di entrambi non fu pacifica e anche Veritatis splendor fu occasione di dure polemiche, soprattutto in ambito intraecclesiale e tra i teologi.
Non va dimenticato che nelle logoranti polemiche, da cinquant’anni agitate improvvidamente verso l’enciclica di Paolo VI, spesso s’incontra il criterio interpretativo per il quale Humanae vitae e Veritatis splendor «simul stabunt aut simul cadent» al fine di garantire un irrinunciabile profilo identitario della vita cristiana e della presenza della Chiesa nel mondo. Molto differente fu, invece, il contesto storico ed ecclesiale in cui queste encicliche videro la luce: dal clima convulso e problematico del ’68, attraversato dalle tensioni del primo post-concilio, si passò a una stagione del tutto differente: gli anni in cui il pontificato di Giovanni Paolo II aveva propiziato un clima più disteso e meno conflittuale, ricomponendo le tensioni tra entusiasmi e delusioni, tipiche del primo decennio dopo il Vaticano II.
L’apparente svolta epocale dell’Ottantanove pareva aprire alla Chiesa inattese e fruttuose vie verso una «nuova evangelizzazione». Sembravano ormai consegnati al passato i timori di una «crisi dottrinale», guardata con speciale apprensione da Paolo VI. A qualche osservatore parve che fosse venuto il tempo di chiudere l’ultimo dossier ancora aperto: la «crisi», appunto, della teologia morale. L’enciclica, dunque, si propose di congedarsi da una stagione non facile della vita ecclesiale, ma nello stesso tempo volle farsi carico delle peculiari circostanze del suo tempo, proponendosi di superare la separazione fede-morale, riconosciuta come tratto distintivo e inquietante del secolarismo, cifra con cui veniva interpretata la mentalità dominante.
Veritatis splendor documenta un giudizio maturato sulla vita della Chiesa e della società del tempo che il magistero ecclesiale riteneva adeguato a quella stagione. Pur evitando l’ingenuo appello a riconoscere che «i tempi sono cambiati», non è inutile fare la fatica di verificare il profilo di quella percezione. Un esempio tra i tanti possibili: di fronte all’inquietudine per la progressiva scristianizzazione in atto, quanto il forte investimento sulle «norme morali universali e immutabili» è la strada maestra per riporre al centro dell’attenzione la singolare novità della vita cristiana che, con scelta felicissima, l’enciclica condensa nella figura del «martirio»? Si affaccia allora la necessità di comprendere meglio il modo con cui l’enciclica mantiene in unità la novità del forte tenore biblico della sua prima parte e lo sviluppo del percorso più dottrinale, immediatamente orientata ai dibattiti del tempo tra differenti scuole di teologia morale. A venticinque anni dalla sua promulgazione bisogna prendere atto quanto Giovanni Paolo II investì in questa sua enciclica: fare lo sforzo di immedesimarsi nelle sue intenzioni chiede non solo di ripetere il suo insegnamento, ma di collocarlo nel cammino della Chiesa e di lasciarsi provocare dalle domande che esso suscita, liberandolo dalle polemiche di scuola per valorizzare al meglio l’invito suggestivo e drammatico a quella perfezione che è data all’uomo solamente nella sequela e comunione con Gesù Cristo.
Gilfredo Marengo*
Avvenire.it, 17 agosto 2018
*Docente di antropologia teologica al Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II”