Da Stalin a Hitler, da Mao a Franco e Mussolini: un saggio ricostruisce l’infanzia dei tiranni del XX secolo: contesti familiari difficili, accomunati da una decisiva mancanza della figura paterna.
Da adulti si sono macchiati di crimini efferati, eliminando senza pietà milioni di persone. Eppure prima che insanguinassero il Novecento sono stati anche loro bambini innocenti. Ed è proprio la loro infanzia, periodo cruciale per la vita dell’uomo, a spiegare tanti aspetti della crudeltà omicida che hanno manifestato una volta raggiunto il potere. È originale la chiave di lettura con cui Véronique Chalmet rilegge la storia attraverso i contesti familiari di dieci tra i più noti despoti della storia del XX secolo. L’infanzia dei dittatori (Baldini + Castoldi, pagine 172, euro 17) è un saggio curioso in cui la giornalista e scrittrice francese, pur mettendo sotto la lente tiranni di opposto orientamento ideologico, fa emergere non poche tragiche affinità relative al loro periodo infantile e adolescenziale.
Sia chiaro, non c’è nessuna pretesa “scientifica” di dimostrare una correlazione psicologica tra traumi infantili e personalità dispotiche. Né tantomeno di “giustificare” le peggiori nefandezze richiamando un passato di abusi e maltrattamenti. Anche perché – è sin troppo banale riconoscerlo – non tutti i bambini che hanno subìto soprusi diventano Hitler o Stalin. Così come non è detto che una situazione familiare apparentemente serena generi figli esemplari. È però vero che tutti i dittatori esaminati abbiano mosso i primi passi o siano stati formati in un clima familiare tutt’altro che idilliaco. E molti dei loro abominevoli atti in età adulta non possono certo definirsi frutto del caso o di improvvisa follia. Ma a colpire è soprattutto l’assenza del padre, il comune denominatore di tutti i profili.
Iosif Stalin prima che diventasse Koba, l’inflessibile dittatore comunista dell’Urss fu un bambino nato già con qualche malformazione, malaticcio ed esile di aspetto al punto da essere chiamato Soso (il gracile). Crebbe a suon di botte da parte del padre alcolizzato: ubriacone e violento, più volte il piccolo ha rischiato di soccombere. Ma a prenderle di santa ragione era anche la madre picchiata dal marito e costretta per tirare avanti a concedersi anche ad altri uomini. Indurito dall’inferno domestico, Iosif mostrerà presto un’aggressività fuori dal comune, diventando il terrore pri- ma dei suoi compagni di classe e poi dell’Unione Sovietica: Stalin “l’uomo d’acciaio” dallo spietato culto della personalità.
Non fu certo migliore l’infanzia di Adolf Hitler, il cui padre considerava i figli come effetti collaterali del suo appetito sessuale. Una serie di relazioni incestuose produssero diverse disabilità mentali e fisiche nella famiglia del futuro Führer e saranno probabilmente all’origine della sua politica eugenetica. Di sicuro il padre brutale e violento pretendeva che moglie e figli fossero totalmente asserviti ai suoi voleri. E il piccolo Adolf picchiato anche per futili motivi ne aveva così paura da farsi spesso la pipì addosso. Anche da adulto il terrore del padre sarà causa di disturbi cronici del sonno, incubi e allucinazioni. Al contrario la madre riverserà su di lui un amore morboso e il bambino maturerà una venerazione per quella donna dalla pelle chiara e dagli occhi azzurri da farne l’archetipo della perfezione umana e razziale. Turbolento, incline alla collera, tremendamente vanitoso Adolf si convincerà presto che la pietà non esiste e la morte è un fatto banale se non utile. Il fantasma paterno però non lo abbandonerà mai e il Führer nel 1938 ordinerà ai suoi di radere al suolo il villaggio natale del padre.
Lo stesso disprezzo che covò per sempre il dittatore comunista cinese Mao Tse-tung nei confronti di un papà cinico e avido che non aveva tempo e voglia per dare affetto ai figli. Schiaffi e bastonate, grida e litigi: se i bambini non lavoravano non avevano diritto allo stesso cibo degli adulti. La madre procurava di nascosto ai figli ciò che il padre negava loro: interessato unicamente al suo patrimonio l’uomo negò perfino le spese scolastiche a Mao perché voleva che diventasse agricoltore. E il ragazzo svilupperà un’ammirazione sconfinata per la madre la quale trovava rifugio solo nella preghiera. Quando da grande lo stesso Mao abbandonerà la fede per l’ideale politico diventerà feroce persecutore dei credenti (specie dei cattolici seguaci di una religione straniera): forse proprio vedendo la madre aveva capito che la pratica religiosa era una forma di resistenza all’autorità difficile da controllare. Quanto al padre, nel 1968 durante una seduta di tortura per gli oppositori del suo regime, Mao dirà: «Peccato che mio padre sia morto, o ce ne sarebbe anche per lui».
Nemmeno Francisco Franco riuscirà mai a perdonare l’inguaribile donnaiolo di suo padre: uomo freddo e severo, senza alcun riguardo per la moglie, superbo e arrogante, andrà via di casa accasandosi con una delle tante amanti. Un abbandono che sarà sempre una ferita per il piccolo Paquito il futuro Caudillo che non vorrà più rivederlo. Crescerà sprezzante di ogni passione e determinato a vendicare tutte le umiliazioni subite anche quella di adolescente privato dell’affetto del padre. Ma lo stesso Mussolini fece i conti con le infedeltà e l’alcolismo del padre. Il piccolo Benito, descritto come un bambino che non piangeva né rideva mai, svilupperà presto una propensione alla violenza frutto degli indottrinamenti anarchici e rivoluzionari del padre. Non meno rigida fu pure l’educazione del dittatore comunista cambogiano Pol Pot. Mentre votata all’idolatria del figlio fu quella ricevuta da Gheddafi. E che dire di Saddam Hussein che il padre non l’ha mai conosciuto perché ufficialmente morto o secondo altre fonti andato via di casa: la madre voleva abortirlo per risposarsi e un patrigno lo tratterà da schiavo. Non sembra affatto casuale che per tutti sia stata decisiva l’assenza fisica o affettiva del padre: le ideologie illuministe e i totalitarismi del Novecento hanno tentato di scardinare la famiglia attaccando soprattutto la figura paterna.
Negli ultimi anni diversi psicologi, tra cui il pioniere in Italia Claudio Risé, hanno denunciato la nostra come una “società senza padri”. Sull’onda del Sessantotto si è proceduto alla svalutazione del fondamentale ruolo paterno e oggi la nuova “dittatura”, l’ideologia di genere, mira addirittura all’eliminazione stessa della famiglia, della differenza tra i sessi e di quella tra i genitori. Ai nostri giorni poi si dà ormai per scontato che i matrimoni finiscano, che i genitori si separino e che i padri fuggano dai figli. Fa invece riflettere molto che le sofferenze oggi dei “figli senza papà” siano le stesse che abbiano trasformato degli uomini in dittatori mostruosi: narcisismo, vergogna, ribellione distruttiva, insicurezza, scarsa autostima, rapporto simbiotico con la madre. Perché grida nel cuore di ogni bambino il bisogno di uno che ci separi dal guscio materno, di uno che educandoci al sacrificio e trasmettendoci le regole, ci indichi la strada davanti alle difficoltà della vita, che ci ricordi che non siamo il dio di noi stessi e che la realtà può essere dolorosa ma ha un senso. In altre parole è insopprimibile il bisogno di un padre che ci aiuti a diventare uomini.
Antonio Giuliano
Avvenire.it, 28 agosto 2018