Elevato al pontificato nel 590, in un’epoca buia per la Chiesa e per l’umanità, nel pieno delle invasione barbariche, benché gravemente malato San Gregorio Magno decise di mantenere salda la dottrina. Evangelizzare il mondo ma non cercarne la compiacenza, coltivare un sano “disprezzo del mondo”.
Non è una novità per la Chiesa attraversare momenti molto difficili, di grave crisi. Tutta la storia della Chiesa Cattolica è piena di momenti tragici, in cui sembrava quasi prefigurarsi una fine imminente. Certo, il momento che stiamo vivendo, travagliato da scandali interni e pressioni esterne, ci fa pensare ad uno di quei momenti. Non è pensabile che la Chiesa finisca, abbiamo la parola del Signore che garantisce la sua assistenza. Ma che essa divenga ininfluente, superflua, non credibile per una gran parte di cattolici, questa è una possibilità concreta. Esisterà come istituzione, ma diverrà quasi un retaggio di un passato oramai relegato nei vaghi ricordi di un mondo che gli ha definitivamente voltato le spalle.
Sembra un quadro pessimistico, ma lo è soltanto per chi non vuole ascoltare, vedere, osservare la percezione che si ha in larghi strati della società della Chiesa attuale e della sua gerarchia. Una percezione in parte alimentata da media ostili, in parte frutto di scandali interni tremendi e in parte mantenuta grazie alla omertà che regna in molti (ma non tutti) membri del clero e in molti (ma non tutti) addetti ai lavori, che preferiscono difendere l’indifendibile piuttosto che darsi da fare per salvare la barca che affonda.
Non so come avrebbe agito – ma oso immaginarlo – Gregorio I Magno (540-604) che la Chiesa festeggia il 3 settembre. Egli pure si trovò ad essere attivo in un periodo della storia non facile, fra scismi, carestie, invasioni barbariche. Era un uomo ben educato, proveniente da una famiglia importante, la gens Anicia e per questo quindi imparentato con San Benedetto e con Severino Boezio. Ebbe importanti ruoli nella Chiesa ma sentì una forte inclinazione per la vita monastica. Fu elevato al pontificato nel 590, malgrado la sua salute non fosse delle migliori. Fu scrittore straordinario, di grande eleganza ed efficacia. Una certa traduzione gli attribuiva la composizione di quel canto gregoriano che proprio da lui prende il nome, una tradizione non più accettata dalla comunità musicologica.
Nelle grandi difficoltà decise di mantenere salda la dottrina e malgrado la sua infermità fisica si mostrò fermo e deciso. Nella catechesi del 28 maggio 2008, così Benedetto XVI si riferiva al suo predecessore: “Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi”.
Fu detto “il grande”, magno, proprio per questa grande opera a servizio della Chiesa di Dio, un’opera che vedeva nella difesa della dottrina uno dei suoi capisaldi. Evangelizzare il mondo ma non cercarne la compiacenza, coltivare un sano “disprezzo del mondo”. Romano Amerio nel suo “Iota Unum” diceva: “E qui conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa, legge che è insieme il criterio supremo della sua apologetica. La Chiesa è fondata sul Verbo incarnato, cioè su una verità divina rivelata. Certo le sono date anche le energie sufficienti a pareggiare la propria vita a quella verità: che la virtù sia possibile in ogni momento è un dogma di fede. La Chiesa però non va perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la verità. La Chiesa peregrinante è da sé stessa, per così dire, condannata alla defezione pratica e alla penitenza: oggi la si dice in atto di continua conversione. Ma essa si perde non quando le umane infermità la mettono in contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita”. Ecco, Gregorio Magno cercò di tenere salda la barra del dogma pur nelle enormi difficoltà che si trovava a vivere. Nel “Commento al Libro di Giobbe” di san Gregorio (che ho trovato citato in www.gliscritti.it) c’è questo bel passaggio: “Il primo albore o aurora fa passare dalle tenebre alla luce; per questo non senza ragione con il nome di alba o aurora è designata tutta la Chiesa degli eletti. Infatti passa dalla notte dell’infedeltà alla luce della fede a somiglianza dell’aurora e dopo le tenebre si apre al giorno con lo splendore della luce superna. Perciò ben si legge nel Cantico dei Cantici: “Chi è costei che sorge come l’aurora?” (Ct 6, 10). La santa Chiesa, che aspira ai beni della vita eterna, è chiamata aurora, perché, mentre lascia le tenebre del peccato, brilla della luce della santità.
Ma abbiamo ancora qualcosa di più profondo da considerare nella figura dell’alba e dell’aurora. L’aurora infatti o il primo mattino annunziano che è trascorsa la notte, e tuttavia non mostrano ancora tutto lo splendore del giorno; ma mentre cacciano la notte e accolgono il giorno, conservano la luce mescolata con le tenebre. Che cosa dunque siamo in questa vita noi tutti che seguiamo la verità, se non l’aurora o l’alba? Poiché facciamo già alcune opere della luce, ma in alcune altre siamo ancora impigliati nei rimasugli delle tenebre. (…) La santa Chiesa degli eletti sarà in pieno giorno, quando ad essa non sarà più mescolata l’ombra del peccato. Sarà completamente giorno, quando splenderà di ardore perfetto e di luce interiore. Perciò l’aurora viene anche presentata come una fase di transizione, quando è detto: “E hai assegnato il posto all’aurora” (Gb 38, 12). Chi viene chiamato ad occupare un nuovo posto passa da una posizione a un’altra. Ma che cos’è il posto dell’aurora, se non la perfetta chiarezza della visione eterna? Quando sarà condotta a questo luogo, l’aurora non avrà più ormai nulla delle tenebre della notte trascorsa”. Rileggiamo Gregorio Magno in un tempo in cui le tenebre sembrano farsi sempre più fitte.
Aurelio Porfiri
La Nuova Bussola Quotidiana, 3 settembre 2018