Dove può condurre il «miglior interesse del paziente». Da Londra a New York la deriva è «tutelare» la morte.
Potrà essere con il «best interest meeting» (l’incontro per il miglior interesse) che i medici inglesi, insieme a familiari e amici del paziente, stabiliranno se quel paziente con una condizione degenerativa – ad esempio demenza avanzata, Parkinson, Hungtinton, ma anche chi è stato colpito da ictus – debba o no continuare a essere nutrito e dissetato artificialmente, a prescindere da quanto ancora possa vivere. La famiglia sarà consultata, quindi, ma l’ultima parola sarà dei dottori che potranno stabilire se il «miglior interesse» per il malato sia vivere o morire, considerandone le possibilità di miglioramento, la qualità di vita e i desideri espressi in precedenza al riguardo. In ogni caso, nel certificato di morte andrebbe riportata la patologia di cui soffriva e non l’interruzione dei sostegni vitali.
È questa la sintesi del documento che sta discutendo la British Medical Association (Bma), la principale associazione professionale medica inglese, dopo che i giudici britannici hanno stabilito che per interrompere alimentazione e idratazione nei casi di stato vegetativo o minima coscienza non è più necessario interpellare un tribunale, se famiglia e medici sono d’accordo. L’allarme è stato lanciato il 13 agosto scorso dal quotidiano britannico ‘Daily Mail’, che ha anticipato il contenuto del documento in preparazione da parte della Bma citandone alcuni passaggi. Se approvato in questi termini, il testo estenderebbe in Gran Bretagna la platea dei possibili malati soggetti a ‘eutanasia di Stato’: così dovremmo infatti rasssegnarci a chiamare queste ‘procedure’, anche se ufficialmente, per chi sta pianificando tutto, non di eutanasia si tratta – la pratica è legalmente vietata nel Regno Unito – ma di ‘sospensione di trattamenti’ nel nome del proclamato interesse del paziente.
In questo modo, dal pendio scivoloso del testamento biologico si cade nel burrone eutanasico: una volta stabilito, infatti, che scegliere di vivere o di morire ha sostanzialmente lo stesso valore, e il bene massimo da tutelare è la libera scelta della persona e non più la sua vita, tutto il resto viene di conseguenza. Se in certe condizioni è preferibile morire, tanto che la morte viene considerata il «miglior interesse» della persona, allora quell’interesse va perseguito, sia che lo chieda il paziente stesso sia che lo facciano gli esperti di turno, meglio se supportati dalla famiglia. Pazienza se il malato non può più esprimersi: altri decideranno ciò che è meglio per lui. Non ci si deve illudere che con il biotestamento si possa prendere in anticipo qualsiasi decisione: è bene chiarire che il testo vale solo per rifiutare i trattamenti, ma non per imporne. In altre parole: la notizia che giunge d Oltremanica induce a riflettere sul fatto che si può mettere per iscritto come in certe situazioni non si voglia più essere sottoposti a ‘trattamenti’ di sostegno vitale, quali ventilazione, idratazione o alimentazione artificiale, e queste volontà saranno rispettate, ma il contrario non vale: a essere tutelato è solo il ‘no’.
Dopo le persone in stato vegetativo o in minima coscienza, l’attenzione si allarga verso tutti coloro che non possono guarire e non possono esprimere il proprio consenso, e cioè le diverse condizioni di neurodegenerazione, e la demenza avanzata è sicuramente quella maggiormente interessata. È della primavera scorsa l’ennesimo segnale in questa direzione, stavolta dagli Stati Uniti, per la precisione da New York dove l’associazione End of life choices (Scelte di fine vita), propone un modello di testamento biologico per poter rifiutare alimentazione e idratazione in caso di futura demenza, anche quando si riesce ancora a ingoiare naturalmente cibo e fluidi, anche se la persona colpita da demenza sembra volere quel cibo o quell’acqua offerta a mano, con le posate e il bicchiere, senza dispositivi medici (flebo o peg), e anche se il malato apre la bocca aspettando che qualcuno lo imbocchi. «Le mie istruzioni – si legge nel modello di biotestamento diffuso – sono di non voler essere nutrito a mano anche se sembrassi collaborare aprendo la bocca».
Il documento non è una novità assoluta: lo scorso anno l’associazione End of Life Washington aveva formulato il Vsed -Voluntary Stopping Eating and Drinking, «interruzione volontaria di bere e mangiare», una sorta di dichiarazione anticipata per malati inguaribili ma non ancora terminali, compresi quelli con diagnosi di demenza, inclusiva delle istruzioni per stabilire quando dare loro da mangiare e da bere e quando smettere. L’Associazione spiega che «chi si prende cura di questi pazienti si sente in dovere di nutrirli, a prescindere dai loro desideri. Spesso il fatto che essi aprano la bocca quando si offre loro nutrimento con il cucchiaio viene interpretato come un desiderio di mangiare, mentre i medici ci dicono che aprire la bocca è più un riflesso che l’espressione di un desiderio di nutrirsi. Quasi tutti i malati di demenza raggiungono una fase in cui alimentarsi non è importante per loro». Non si parla più di sofferenza insopportabile, di dolori non controllabili – e, d’altra parte, oramai è noto che cure palliative e terapia del dolore risolvono questi problemi. In gioco c’è solo il cosiddetto ‘diritto di morire’. Questo è ben spiegato nell’introduzione alle direttive elaborate dall’associazione newyorkese: per l’Alzheimer – principale forma di demenza per cui queste disposizioni anticipate sono state formulate – il tempo di vita medio fra la diagnosi e la morte è di circa 7 anni, ma se si ha una buona assistenza e si viene nutriti si può vivere molto più a lungo e diventa impossibile stabilire quando il malato morirà. Quindi per evitare le fasi finali della malattia – che a questo punto non si sa quali siano e quanto potrebbero durare – la End of Life Choices propone le sue Disposizioni: bisogna evitare di vivere in certe condizioni, punto e basta. Il problema non è più assistere queste persone, ma abbreviare la loro esistenza.
E allora perché non ricorrere direttamente all’eutanasia in forma esplicita, o al suicidio assistito, cioè alla somministrazione di un farmaco letale, per una morte veloce e sicuramente indolore, senza quegli spiacevoli effetti collaterali presenti in chi muore disidratato (13 anni fa abbiamo assistito alla fine di Terry Schiavo, e ne conosciamo bene i terribili particolari)? La risposta è semplice: per l’eutanasia esplicita servono leggi apposite. E una legge significa dibattito pubblico, vuol dire parlarne apertamente sui media e sui social network nei quali è ormai impossibile impedire a tutte le voci di farsi sentire. Ne viene investita la politica, e quindi la cittadinanza: il dibattito non è più riservato agli addetti ai lavori, non è più confinato nei protocolli medici, nelle linee guida degli esperti. E c’è il rischio che qualcuno poi ci faccia un referendum, come è stato per la legge 40 in Italia, col rischio per le lobby di perdere. Si fa prima a cambiar nome all’eutanasia, usando un’espressione consentita dalla legge: rifiuto delle cure, per esempio. Può essere persino una norma sul testamento biologico, perché poi si può andare avanti, pian piano, nel silenzio, più o meno inconsapevole, dei più.
Assuntina Morresi
Avvenire.it, 6 settembre 2018