Il fondatore della Comunità di Bose: «Soprattutto in inverno, quando è buio e freddo, sento il bisogno di qualcuno che mi aspetti o almeno mi pensi»
Esattamente cinquant’anni fa, qui a Bose (a Magnano, nel Biellese), i primi fratelli e sorelle raggiungevano Enzo Bianchi per dare vita alla Comunità monastica che porta il nome di questa località che sfuma nella campagna. Da allora, per tutto questo tempo, Bianchi di certo ha fatto una cosa: è andato a letto presto.
A che ora va a dormire?
«Alle sette e dieci di sera, quando finisce la preghiera, io mi ritiro nel mio eremo. Solo allora comincia la serata, mi corico verso le 11». I settantacinque anni portati con disinvoltura e la barba ben curata tradiscono un’attitudine che l’ex priore di Bose non enfatizza mai, al contrario di altre sue passioni: la cordialità. Tutti sanno che ha un orto che coltiva con disciplina e parla sempre dei suoi pomodori cresciuti accanto alle portulache, nel cemento. Ma la vera natura di questo monaco laico — profondo conoscitore delle Scritture nonché fine intenditore di melanzane perline — va colta in altri dettagli: l’affabilità con cui accoglie i visitatori, la presenza tra la gente, i numerosi amici che qui vengono a fargli visita.
Enzo Bianchi, che cosa la annoia?
«Non conosco la noia. Piuttosto sono vittima dell’ansia. Se aspetto qualcuno e questo ritarda io comincio ad agitarmi». Un sole ancora estivo. Passeggiamo in quello che fu il nucleo originario della Comunità di Bose, un pugno di case rurali appartenenti all’inizio a diverse cascine e una chiesetta antica che Enzo ha rimesso a posto quasi da solo, ponendo a mo’ di altare una macina di epoca romanica.
Quando lei arrivò, nel ‘65, qui c’erano soltanto case abbandonate.
«Non solo: per anni abbiamo vissuto senza luce né acqua corrente. Non sono stati facili gli inizi e non parlo soltanto delle difficoltà materiali».
La Curia era ostile?
«Ricordo benissimo l’interdizione che mi colpì per decisione dell’allora vescovo di Biella, il quale si rifiutò persino di stringermi la mano. Faceva paura questa isola di preghiera autonoma e accogliente verso tutti, ispirata solo al Vangelo».
Quello stesso Vangelo che oggi divide i cattolici in due fazioni: i paladini di valori identitari, potremmo dire «da parrocchia», e quelli che difendono precetti universali.
«Lo abbiamo visto nella netta opposizione che una parte dei cattolici (come Famiglia Cristiana e Avvenire; ndr) ha eretto nei confronti del ministro dell’Interno e delle sue posizioni sui migranti. Ma sono anni che questo mondo è spaccato: da una parte i cristiani “da campanile”, dall’altra quelli che si ispirano al Vangelo. Per farla breve, i cristiani da campanile sono quelli che attaccano il papa».
Lei è un uomo molto popolare. I suoi scritti sono letti da tutti, le sue conferenze affollate. Come concilia la scelta di vita monastica con il successo?
«A difendermi ci sono le mie origini: poverissime ma coraggiose. Mio padre faceva lo stagnino, a volte riparava i tetti per arrotondare. Mia madre morì per mettermi al mondo: era affetta da stenosi mitralica e sapeva bene che il darmi alla luce le sarebbe costato. L’ho persa che avevo otto anni, ma ha fatto in tempo a insegnarmi la fede e l’allergia al successo. Che è una tentazione peggiore del sesso. Quindi, sono abbastanza immunizzato».
Bianchi, le manca un figlio?
«Sono sincero: a volte sì, sento il bisogno di avere qualcuno che, alla sera, mi pensi. Certo, io ho scelto la vita monastica, cosa che mi ha dato pienezza. Però, come dicevo, alle sette e dieci di ogni sera mi ritiro nel mio eremo. Specie nelle serate d’inverno, fredde e buie, qualche volta mi manca qualcuno che mi aspetti. O che soltanto mi rivolga un pensiero. Il celibato segna una solitudine impossibile da cancellare. Quando si è giovani, manca l’esercizio della sessualità. Da vecchi manca qualcosa d’altro: gli amici, che poco alla volta se ne vanno; l’affetto di una compagna; sì, anche di un figlio».
Quante volte si sarà sentito dire: «Lei ha scelto il Signore, è un uomo fortunato»?
«Innumerevoli, ma sono due cose diverse: tutte le scelte di vita portano a delle rinunce. La fede è al centro della mia vita, ovvio, ma è un’altra cosa rispetto a ciò che puoi provare come essere umano. La solitudine è umana, io non la nascondo dietro a una corazza. Così, qualche rara volta, mi concedo due dita di brandy di Andalusia, gran riserva 1866, e brindo nell’aria a un amico immaginario, come a volerne evocare la presenza fisica accanto a me».
Però lei è una «star» dei social. Non la infastidiscono i toni da stadio o la violenza verbale?
«È purtroppo solo il sintomo di un malessere più radicale. Guardi l’Europa, non solo l’Italia. Il continente intero è attraversato da un profondo cambiamento. È come se le radici del nostro umanesimo si stessero spegnendo. Badi bene: non parlo solo delle radici cristiane, ma dell’illuminismo, del grande pensiero moderno. Intolleranza e razzismo sono il prodotto di una memoria corta. Dobbiamo ritrovare una grammatica elementare dell’umanità: la barbarie è un’epidemia».
Ma chi dovrebbe guidare questo «recupero di una grammatica umana»? Il pensiero progressista balbetta.
«Beh, l’appello del mio amico Massimo Cacciari mi è piaciuto, vorrei che in tanti lo sostenessero».
Ma come, lei che non frequenta i salotti buoni e che di questo ha sempre fatto un vanto, poi appoggia un manifesto degli intellettuali?
«Condivido le idee, di certo non cambio il mio modo di essere, lontanissimo dai “salotti”, come dice lei, e dai circoli che contano. Ne ho visti troppi che, come me, sono partiti da idee di sinistra e oggi sono approdati ad un isolamento snob».
Nomi?
«Non ci penso nemmeno. Però una cosa gliela dico: lo sa chi fu quell’unica voce fuori dal coro che in tempi non sospetti, negli anni Ottanta, denunciò un certo decadimento dei valori della sinistra? Gianni Baget Bozzo. Lo attaccarono e che mi scontravo con lui sui giornali, gli diedi ragione. E oggi riconosco che ci aveva visto benissimo».
Chi sono i suoi amici, oggi?
«Soprattutto persone poco conosciute. Alcuni sono famosi, come Cacciari, Galimberti, Recalcati o il chirurgo Mauro Salizzoni, altri invece li incontro mentre lavorano la terra o impastano il pane».
Con il tempo la sua capacità di perdonare si è raffinata o si è irrigidita?
«Si parla con troppa facilità di perdono. Complici anche certe trasmissioni televisive o operazioni mediatiche ad effetto: si dice “ti perdono” con una leggerezza che non è nella natura di questo atto. Il perdono vero non è una semplice assoluzione: bisogna che chi perdona riesca a immedesimarsi in chi ha compiuto il male; non deve dimenticare, ma scommettere sul cambiamento dell’altro».
Conosce tanta gente incapace di perdonare?
«Conosco tanti incapaci di perdonare prima di tutto loro stessi. È uno dei malesseri che riscontro con più frequenza: tante persone vengono qui, ospiti della comunità. Le vedo: sono inquiete, non sanno stare in ozio, non sanno stare “affacciate al balcone”, come dico io. Devono fare qualcosa per riempire un enorme vuoto. Per saldare un conto interiore invisibile e pesante. Io sono convinto che questa smania di perdono mediatico sia una specie di talismano che evochiamo per perdonare noi stessi».
C’è qualcosa che Enzo Bianchi non riesce a perdonarsi?
«Sì, c’è. In due casi non sono stato abbastanza vicino ad altrettante persone, ho assistito impotente alla loro perdizione. Avrei potuto fare molto di più, ma sono stato paralizzato: peccati di omissione! Nessuno di noi è esente da colpe»
Roberta Scorranese
Corriere della Sera, 20 settembre 2018
https://www.corriere.it/liberitutti/18_settembre_20/padre-bianchi-felice-preghiera-ma-qualche-volta-mi-sento-solo-9443a2a0-bb44-11e8-bdaa-50b21d428469.shtml