Compie 200 anni il primo libro di fantascienza della storia. Fu scritto da una ragazza prodigiosa di soli 19 anni: Mary Shelley
Un’estate fredda e piovosa, quella del 1816, un gruppo di amici in vacanza sul lago di Ginevra. La sera bevono vino rosso, flirtano, scherzano e discutono; di poesia, di scienza, di letteratura, del futuro, il loro gioco preferito è un concorso letterario in cui ti devi inventare storie di fantasmi, racconti estemporanei costruiti sulla falsariga del romanzo gotico, genere snobbato dalla critica letteraria dell’epoca. Ci vuole immaginazione e rapidità di pensiero, la più brava di tutti è Mary, che è anche la più giovane, 19 anni e un talento mostruoso. È figlia della filosofa femminista Mary Wollstonecraft e del romanziere e giornalista William Godwin, il gusto letterario, l’amore per le scienze, un clima di sferzante anticonformismo accompagnano tutta la sua infanzia. Con lei a Ginevra ci sono i poeti George Byron e Percy Shelley che presto diventerà suo marito, il medico e aspirante scrittore John Polidori che nel 1819 pubblicherà Il Vampiro, primo romanzo della letteratura moderna dedicato al celebre succhiasangue. Ogni tanto viene a trovarli il fisico e chimico Humphry Davy, pioniere nello studio dei fenomeni elettrici, scopritore e mentore del grande Michael Faraday, a sua volta pioniere dell’elettromagnetismo.
È in quelle eccentriche notti a Villa Diodati tra fumi dell’alcol e i lampi di genio che Mary Shelley concepisce il suo Frankestein, che non è solo un libro fantasy ma il primo grande romanzo di fantascienza.
Il mostro, anzi la Creatura non è il frutto di un sortilegio, non è il prodotto di oscure forze del male o di astruse stregonerie, al contrario è figlio della ricerca scientifica, nasce in laboratorio, il suo fattore è un essere umano, la scintilla della vita è un “fluido galvanico” che rianima le fibre morte di carni ricucite, come il medico italiano Galvani faceva contrarre i muscoli dei cadaveri di rana, Viktor Frankestein, professore di filosofia naturale, crea un essere umano dotato di coscienza, capace di provare setimenti estremi come la paura e l’odio e di consumare una tremenda vendetta nei confronti del “padre”.
Nella sua prefazione Mary Shelley rende omaggio alle esperienze di Galvani, ai lavori di Benjamin Franklin, alle ricerche poco note di un anatomista chiamato George von Frakenau che sosteneva la tesi della rigenerazione spontanea della materia inerte. Aderisce al meccanicismo filosofico che utilizza la metafora della macchina come schema di spiegazione dei fenomeni naturali. Studi di sapienti e accademici che legge con passione, per accrescere la sua cultura personale ma soprattutto per trarre ispirazione letteraria.
Viktor Frankestein non è ancora un uomo di scienza a tutto tondo, vive in bilico tra esoterismo e ragione, cerca suggestioni anche nel mondo della magia e dell’alchimia, ha letto i libri di Cornelius Agrippa, un occultista del Rinascimento, si entusiasma per gli scritti di Paracelso e rimprovera ai suoi colleghi di condurre studi banali e privi di coraggio. Ma è anche il miglior studente di anatomia e fisiologia alla prestigiosa Università di Ingolstadt e il più innovativo ricercatore dell’epoca; ammira la magìa per la sua sfrontatezza, per le biografie “storte” dei suoi fautori, ma realizzerà il sogno di penetrare il segreto della vita seguendo il metodo scientifico. Il flusso elettrico che attraversa e anima le carni morte ha la stessa intensità dei Lumi della ragione che brillavano in Europa.
Il tragico corso di eventi che nasce dal rifiuto della Creatura le cui sembianze abnormi provocano estremo ribrezzo in Viktor, non è un monito moralista rivolto alla superbia degli scienziati che osano “sostituirsi a Dio” come hanno scritto in molti. La malvagità della Creatura è la reazione a una società che non ha la forza e la maturità di accettare il diverso, il difforme, e che lo emargina rendendolo un mostro incattivito. La vendetta feroce della Creatura che uccide il fratello e la moglie del suo creatore è in fondo una reazione umanissima di un uomo odiato da tutti a causa del suo aspetto esteriore. In questo Viktor Frankestein ha avuto un successo perfetto, ha creato un essere umano con tutte le sue debolezze e imperfezioni, con il suo bisogno di amore e la sua sete di rivalsa.
Eppure nel corso dei secoli l’immagine della Creatura, confusa con il nome del suo creatore, ha subito una progressiva “mostrificazione” rappresentata poi nel cinema dal colosso con la testa quadrata cosparso di cicatrici, tutto grugniti e movenze robotiche, un figuro bestiale e repellente privo di intelligenza e senso morale. Andando nei dettagli Mary Shelley non descrive la sagoma espressionista di Boris Karlov che tanta fortuna ha avuto nell’immaginario collettivo, ma un uomo affetto da gigantismo e dall’aspetto molto sgradevole, nulla di più. Una creatura intelligente, che impara a leggere e a scrivere, che capisce i sentimenti degli umani e si allontana da loro per sopravvivere fino al tragico suicidio quando si dà fuoco tra i ghiacci dell’Artico.
Ma noi continuiamo a immaginarlo e a rappresentarlo come “Frankestein il mostro”, una specie di zombie formato gigante. Perche questo slittamento?
I mostri in fondo ci rassicurano perché sono corpi estranei. Eccezioni alla regola, anomalie selvagge che non appartengono all’umano. Presenze minacciose, certo, ma soprattutto entità aliene e reiette dalla comunità. Le sembianze ibride e deformi fungono da segni visibili delle sventure di cui il mostro è portatore, mentre le sue mille metamorfosi seguono il corso dell’immaginario popolare in modo che ogni epoca sia in grado di partorire e di specchiarsi nei suoi peculiari mostri.
Le società hanno un bisogno disperato di fabbricarli proprio perché, strappano l’orrore dalla sua dimensione anodina e quotidiana per assegnarlo al cliché dello straordinario, le loro incursioni nel mondo reale sono tanto spaventose quanto effimere. Nominato, isolato, eliminato il mostro, tutto sembra tornare nella norma.
Nell’antichità il terrore e il ribrezzo suscitati dai mostri sono spesso associati allo stupore, alla contemplazione dei portenti e delle mirabilia di cui queste creature sono capaci, dei fantasmagorici poteri che sovvertono le leggi della fisica e della natura come l’invisibilità, l’invulnerabilità o addirittura l’immortalità. Se non proprio epifanie diaboliche i mostri sono la faccia oscura del divino, una punizione inviata dal cielo per castigare le nefandezze commesse dagli uomini come scriveva lo storico romano del IV secolo Giulio Ossequiente nel celebre Libro dei prodigi, il più accurato elenco di testimonianze di fatti insoliti, miracolosi e terrificanti avvenuti nel mondo classico.
I protagonisti di cataloghi infernali, di racconti immaginifici popolati da chimere, basilischi, fenici, arpie, centauri, cerberi, ciclopi e centinaia di altri esseri dalle indecifrabili fattezze, accompagnano la nostra tradizione religiosa e letteraria, dalla notte dei tempi. Danno forma e corpo a inquietudini ancestrali e a timori atavici, ma sono anche squarci meravigliosi dell’immaginazione umana, straordinarie metafore della nostra capacità di creazione. Nel suo Manuale di zoologia fantastica Borges ci offre una incredibile parata di creature soprannaturali, come il Burak, cavalcatura celeste di Maometto capace di viaggiare nel tempo, o l’Anfesibena, serpente immaginario che sgretola la linearità dello spazio perché «si muove in due direzioni allo stesso tempo, possedendo due estremità anteriori».
Frankestein appartiene anch’egli al catalogo multiforme delle creature fantastiche, ma non è un mostro, non è un’allegoria, la sua esistenza appartiene al campo del possibile, almeno per quel che immaginavano gli scienziati del 19esimo secolo.
Il vero mostro moderno non fa più parte dell’antico bestiario. Se il freak, lo storpio, il menomato ( dalla donna- scimmia, all’uomo elefante), nella loro innocua diversità provocano un disgusto misto a sincera compassione, colui che si macchia di atti e comportamenti mostruosi ( ovvero antisociali) non merita alcuna comprensione o pietà. La sua nemesi si svolge all’ombra di patiboli, torce e forconi e linciaggi: che si tratti un ammasso di cadaveri ricuciti o di un realissimo serial killer di una grande metropoli, il mostro viene sempre catturato e giustiziato. Ecco un’altra trama consolatoria che abbiamo costruito attorno all’errare dei mostri: farli diventare il capro espiatorio del nostro malessere.
Ma questi individui- mostro costituiscono ancora una volta un’eccezione alla regola, le loro azioni efferate non rispecchiano la morale pubblica ma la infrangono, non esprimono un sentimento collettivo, ma rimangono a loro modo “straordinarie”.
Nei suo film a episodi I Mostri ( 1963) il regista Dino Risi compie invece l’operazione opposta: il mostruoso viene infatti ricollocato nel cerchio della normalità, il campionario di bassezze sfoggiato dai protagonisti, il familismo amorale, la loro incapacità patologica nel diventare cittadini, membri consapevoli di una comunità, è lo specchio rovesciato del boom economico e dei suoi sentimenti puliti. Dietro l’ottimismo di una società che corre spensierata verso un avvenire virtuoso si muove un popolo cialtrone, dall’indole meschina, ipocrita e, all’occasione, anche spietata. Sono i nostri genitori, i nostri cugini, i nostri amici più stretti, i nostri vicini di casa: non più fenomeni da baraccone e terrificanti anomalie, ma viziosi quanto banali compagni di vita.
Così la commedia di costume umanizza il mostro e mostrifica la società in cui esso vive. E nessuno può più dichiararsi innocente e irresponsabile rispetto alle piccole, grandi nefandezze che commettiamo ogni giorno. Proprio come ci insegna il Frankestein di Mary Shelley, perché i veri mostri siamo noi.
Daniela Zaccaria
22 settembre 2018