La Città di Dio è un’opera enorme in 22 libri, come tale facilmente ridotta in frammenti di citazioni, che possono anche essere contraddittorie. Superata tuttavia la tentazione del furto sistematico, resta una importante testimonianza di una grave crisi e dei modi affrontarla. Il suo autore, definito Padre dell’occidente per eccellenza, vive e scrive dalla sponda africana di questo Medi/terraneo, bello e dolente: leggerla oggi da un’Italia ferita, abbrutita dai porti chiusi e dalla barbarie incombente, può fare del bene.
Geopolitica in questione: la crisi e la Città di Dio
Lo scritto prende forma a partire da una data precisa e dichiarata: il saccheggio di Roma del 410, ad opera degli uomini di Alarico, generale visigoto in precedenza collaboratore dei Romani nell’Illirico (Balcani). E’ lo stesso Agostino a spiegarlo nelle Ritrattazioni (426), lo scritto in cui recensisce, inquadra e a volte corregge quasi tutto ciò che ha scritto negli anni precedenti.
La devastazione di Roma fu evento importante e triste, come ogni fatto di guerra, certo però fu anche amplificato nella percezione occidentale, che vi riconobbe un segnale di crisi di vasta portata, che trovava lì visibilità. L’Urbe era abituata a esportarla la guerra, non ad averla in casa, nel centro simbolico, anche se ormai non operativo, del sistema politico e della sua costruzione culturale. Nel 402, infatti, Onorio aveva spostato la capitale occidentale da Milano a Ravenna, anche a causa della instabilità delle regioni padane, rese insicure dalla pressione sui confini settentrionali e orientali da parte dei nuovi popoli. In realtà tanto nuovi non erano, perché tra alleanze militari, veterani di guerra diventati assegnatari di terre e presenze commerciali, la Padania era un melting pot culturale, un meticciato evidente a chiunque. Oltre a questa lenta e inesorabile diffusione, vi erano stati anche episodi eclatanti, come la grande battaglia di Adrianopoli (378) vinta da una alleanza di capi Goti in precedenza al soldo dei Romani e ancora prima la sconfitta con i Persiani, che aveva segnato la fine dell’espansione romana in Mesopotamia.
In ogni caso il 410 rappresentò per l’occidente l’evidenza della crisi. Gerolamo, dalmata di origine ma visceralmente romano, alla notizia poté affermare: «in una città è caduto il mondo intero». Nel crollo, si devono anche cercare i responsabili, veri o presunti: la forma umanitaria – utilizzo anacronisticamente ma non casualmente il termine – portata dal cristianesimo secondo molti avrebbe indebolito la postura maschia e combattiva del mondo romano. Agostino, dal Nordafrica, dalla crisi ricava un pensiero altro.
Imperi divorati da se stessi
Nella Città di Dio legge infatti in un’ottica complessiva la parabola di un Impero, sostenendo che Roma non si sta sgretolando perché indebolita dal cristianesimo e dal suo modo di presentare la vita e i rapporti fra esseri umani, ma è in certo senso implosa, è stata cioè divorata dalla propria «libido dominandi». L’Impero stesso infatti esiste come solo come espansione che fagocita, si mantiene perché unicamente nella crescita, come se non potesse fermarsi, ma in questa corsa folle decreta anche la propria fine. Nonostante una certa saggezza di governo, riconoscibile nell’estensione ideale del pomerio – il perimetro di confine della Città – attraverso larghi riconoscimenti di cittadinanza e parziali autonomie e differenze religiose (purché devote all’establishment), l’Impero si ampliava attraverso guerre, riduzioni in schiavitù, saccheggi e tutto quanto al sistema di conquista è connesso. Come lo storico romano Tacito ebbe a “suggerire” a un generale dei Caledoni, i Romani «ubi solitudinem faciunt, pacem appellant». La celebrata pax romana si fondava sulla distruzione sistematica e aveva così in sé un tarlo che la distruggeva: o si basava su un modello di politica e una forma di economia – si potrebbe oggi tradurre – che si consumava dall’interno mentre veniva attaccato dall’esterno, dove suscitava spinte uguali e contrarie. La crisi di questo modello può essere salutare, se spinge a meglio leggere il fenomeno e a cercare le cause, senza cercare facili capri espiatori.
Condividere la speranza
Lo scritto di Agostino è comunque pervaso di speranza: è possibile un futuro diverso, che resta possibile anche al variare delle forme, perché c’è un confine interiore che unisce gli esseri umani e crea alleanze insospettabili ma realissime. Questo viene espresso in diversi modi, in luoghi strategici dell’opera: nella prefazione, in cui l’avvento del Cristo, solidale con ogni carne (= rex humilis) viene visto creare una sorta di campo di bene, che da vita alla condizione di possibilità di ogni ben operare, comunque sia nominato. La stessa cosa è ribadita alla metà ideale dello scritto, nel libro XIV:
“Due amori dunque hanno edificato due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, la città terrena, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, la celeste; l’una si gloria in se stessa, l’altra in Dio, l’una è dominata dalla sua stessa sete di dominio, nell’altra i cittadini si servono a vicenda.. ” (XIV,28)
A ribadire che una storia diversa è possibile, attraverso e nonostante tutte le differenze etniche politiche religiose, costruisce infine la prima parte dell’opera, nella quale ripercorre la storia dl mondo a loro conosciuto, sulle Antichità di Varrone, conservandone così per tutti la struttura e larghe sezioni.
La speranza non si può sequestrare, come lo Spirito attraversa le frontiere, unisce le sponde dei mari e può fare dell’umanità una comunità.
Cristina Simonelli
3 agosto 2018
La città tra crisi e speranza. Leggere Agostino sulle sponde del Mediterraneo