L’Economist contro la vulgata gender: troppi problemi vengono nascosti

By 22 Novembre 2018Gender

«Chi decide il tuo genere? L’autoidentificazione di genere è spesso citata come una questione di diritti civili. Ma è problematica più di quanto molti suoi promotori pensano»; si apre così, con una presa di posizione sorprendentemente critica sull’ideologia del gender, un intervento apparso alcuni giorni fa sull’Economist, il celebre settimanale inglese. I motivi per cui questo editoriale alimenta un certo stupore sono essenzialmente due.

Il primo riguarda il fatto che esso sia stato pubblicato non soltanto su una testata celebre, che ha fatto la sua comparsa nel lontano 1843, ma pure notoriamente progressista, come dimostra una battaglia a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso condotta fin dal 1996.

La seconda ragione di interesse per l’intervento in questione è dovuta invece all’originalità dell’argomento critico che viene portato nei confronti della vulgata genderista, ossia il dilemma su chi poi debba essere – se lo Stato, un tribunale, un comitato di esperti o il singolo cittadino, con tutte le conseguenze e le insidie che ognuno di questi scenari implica – a dire l’ultima parola su quell’autoidentificazione di genere tale per cui uno non è maschio o femmina, ma solo chi si sente di essere in quel momento. In realtà, il dubbio che l’Economist espone sul transgenderismo non è forse neanche il più centrale, dal momento che esistono anche altri elementi critici su questa condizione, soprattutto quando essa è accompagnata dalla chirurgia.

Infatti, per quanto l’Oms preferisca ora considerare la disforia di genere non più un disturbo mentale bensì una “incongruenza di genere”, resta che le persone che si sottopongono a un intervento chirurgico per il cambio di sesso sperimentano un rischio fino a 20 volte superiore di suicidarsi rispetto alla popolazione generale (anche in Paesi gay friendly, per inciso); senza dimenticare quanto rilevato da un recente studio apparso nell’agosto 2018 sulla rivista PLOS One, e cioè che diversi bambini “diventano transgender” più per la pressione e l’influenza sociale che per predisposizioni innate, e comunque il 62% di essi riporta una diagnosi di disturbo psicologico.

Certo, si può sempre obbiettare che l’autoidentificazione di genere, non prevedendo particolari interventi chirurgici e ormonali, possa essere qualcosa di meno invasivo, ma al di là questo – e delle obiezioni che comunque anche il transgenderismo 2.0 lascia sospese – in questa sede è il fatto che una fonte di riconosciuta autorevolezza come l’Economist esprima dei dubbi, l’aspetto più sorprendente. Per capirci, è come se i “nostri” Repubblica o L’Espresso pubblicassero una critica alle nozze gay. I più attenti lettori del settimanale inglese in realtà sanno come esso già da qualche tempo ospiti posizioni che non sempre riflettono appieno le tesi Lgbt, tuttavia la notizia rimane. Ora, come va interpretata? Forse è in corso un ripensamento culturale sull’ideologia del gender, della quale a lungo si è perfino negata l’esistenza?

Francamente, è troppo presto per dirlo. Occorre aspettare. Tuttavia, tutti coloro i quali hanno a cuore la difesa del buon senso e di quei principi che oggi appaiono stranamente arcaici – come il fatto che si nasca maschi o femmine, e che ogni bambino abbia diritto a un padre e una madre – non possono che accogliere positivamente la presa di posizione dell’Economist che è senz’altro possibile intendere, questo sì, come un primigenio segnale di autocritica, per quanto sottile, di una cultura dominante che, appoggiate da decenni le istanze del movimento arcobaleno, inizia a fare i conti con la realtà e ad interrogarsi sulle conseguenze di certe battaglie. Non è moltissimo né è abbastanza per festeggiare ma, come si dice in questi casi, è già qualcosa.

Giuliano Guzzo

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