Abbiamo intervistato, nell’ambito della XVII edizione dei Dialoghi di Trani, dedicata al tema “paure” , Luigi Zoja: psicoanalista di fama mondiale. Classe 1943, Luigi Zoja ha compiuto le sue prime ricerche sociologiche nella seconda metà degli anni sessanta per poi studiare presso il C.G. Jung Institut di Zurigo e continuare le proprie ricerche negli Stati Uniti d’America. Ha ricoperto il ruolo di presidente dell’Associazione internazionale di psicologia analitica (Cipa) e della International association for analytical psychology (Iaap). I suoi studi, tradotti in diverse lingue si focalizzano su molte problematiche della contemporaneità, analizzate alla luce dei miti e di immagini archetipiche.
Nel suo nuovo libro Vedere il vero e il falso da poco pubblicato da Einaudi afferma che la parabola della fotografia è indicativa per comprendere la società in cui viviamo, soprattutto per quel che riguarda i mass-media. Potrebbe spiegarci meglio il suo punto di vista?
Pur non essendo un massmediologo ho avuto lavorato molto all’analisi dei media e della veicolazione delle notizie quando, per circa dieci anni, ho portato avanti uno studio sulla paranoia nella storia che ha avuto come punto di partenza l’11 settembre del 2001 e che è confluito nel volume Paranoia. La follia che fa la storia (edito da Bollati Boringhieri nel 2011). Anche se, ad essere precisi, il vero punto di partenza di tale studio è stato il day after, ovvero il 12 settembre. È stato questo, infatti, il momento di un ritorno a una cultura orale, dominata dal panico e dalla paranoia, quest’ultima da intendersi in un’accezione non strettamente clinica, ma più ampia. Ho la convinzione, infatti, che gli studi psicologici e psicanalitici non debbano limitarsi alla clinica individuale, ma possano essere ampliati (senza incorrere negli “eccessi” degli studi del secolo scorso) per comprendere delle questioni di portata collettiva.
Questo mio studio, quindi, si è sviluppato in un momento di “involuzione” della paranoia come fenomeno psichico collettivo, in cui i media e soprattutto i mezzi di comunicazione di massa, hanno avuto un ruolo fondamentale. Infatti, tali esiti sono del tutto differenti – e inediti – se si comparano le modalità di propagazione del fenomeno paranoide in un’epoca in cui tali mezzi non esistevano. Con la contemporaneità, infatti, nasce il pubblico e una società civile che hanno il diritto di essere informati, ma – al tempo stesso – è questo il momento in cui chi detiene il potere insiste proprio su tale diritto per poter orientare le masse. In questo senso è emblematica la fotografia, perché concentra il messaggio da convogliare non in un flusso di alcun tipo, ma in un singolo fotogramma.
Proprio per questo, pur non avendo un legame specifico con tale mezzo, se non per il fatto che mi sono state fatte fotografie e che da ragazzo uno dei momenti fondanti del passaggio all’età adulta era proprio quello di ricevere in regalo un apparecchio fotografico “professionale”, ritengo che la fotografia rappresenti un settore della cultura moderna molto interessante. Me ne sono reso conto ancora più chiaramente quando ho cominciato a ritagliare e conservare articoli di giornale, con fotografie annesse. Mi rendevo conto che alcuni scatti continuavano a generare un dibattito anche dopo molto tempo da quando erano stati prodotti e diffusi.
In questo studio sulla paranoia ho visto come la essa si sia manifestata in forme diverse nelle diverse ère umane, ma mi sono concentrato in particolare sull’età contemporanea, parlando lungamente dei mass media perché – a mio parere – rappresentano un momento di grave peggioramento. Con la semplificazione del messaggio che gli è tipica, i mass media, suscitano nello spettatore un forte impatto emotivo che solitamente è finalizzato a trovare nell’“altro”, il responsabile – il “colpevole” – della cosa che si vuole denunciare. Di fatto si cerca un capro espiatorio. Questo schema è lo stesso che assoggetta tutte mezzi di informazione di massa, compresa la fotografia, che anche può sembrare un’arte più “nobile”.
Come ha strutturato il suo libro?
Il libro è composto da due parti. Nella prima ho analizzato quattro foto emblematiche, che hanno “fatto la storia” nel senso che hanno plasmato la visione del pubblico su un certo avvenimento storico. Inevitabilmente la scelta è caduta su foto che hanno a che fare con la guerra o comunque con dei conflitti. Altra caratteristica comune è che tutte le foto selezionate, pur volendo rappresentare uno squarcio sulla realtà – sono state, in qualche modo – “messe in scena”.
Le foto che ho analizzato sono: 1) Il miliziano colpito a morte scattata da Robert Capa durante la Guerra civile spagnola (1936). Su questa foto esistono dei veri e propri partiti opposti: quelli che reputano che sia stata messa in scena e che la ritengono autentica. Interessante il fatto che taluni optino per una posizione “di mezzo”, ovvero che pur pensando che possa essere una messa in scena, la foto conserva una sua “veridicità”, nel senso che si fa comunque portatrice di una verità. Ritengo, però, che una visione del genere non sia più giustificabile al giorno d’oggi, perché equivarrebbe a celebrare la vittoria di un’ideologia sulla realtà; 2) Sodati tedeschi che rimuovo la sbarra di confine alla frontiera fra Germania e Polonia (1939). È una foto composta dai nazisti al fine di propagandare l’inizio della guerra in maniera soft, quasi come si trattasse di un’azione giocosa o addirittura “pacifica”; 3) Alzando la bandiera a Iwo Jima di Joe Rosenthal (1945). Si tratta di uno scatto molto famoso in cui i marines issano la bandiera americana in senso di vittoria. Solo in apparenza è una fotografia che “coglie l’attimo”: sappiamo infatti che la versione che tutti noi conosciamo non è che una delle tante versioni studiate a tavolino. 4) Bandiera rossa issata sul Reichstag di Evgenij Chaldej (1945). In questo caso si tratta di uno scatto ritoccato innumerevoli volte.
Per fare da contrappeso a tutte queste immagini di guerra ho analizzato anche quattro foto in cui sono ritratti dei bambini. Caratteristica comune è che – se anche in questo caso le foto potevano essere in qualche modo “messe in scena” – lo sguardo del bambino ritratto non è “posato”: 1) Bambino nel ghetto di Varsavia (1943). Un’immagine che tutti conosciamo ritrovata in un album commissionato da un generale delle SS per documentare l’annientamento della resistenza nel ghetto; 2) Bambino con ciotola di riso di Yosuke Namahata (1945) scattata il giorno dopo del bombardamento di Nagasaki (di Hiroshima non abbiamo fotografie) e commissionata dai giapponesi per documentare l’accaduto ed avere del materiale di propaganda contro l’occupazione americana. Alcune delle foto scattate in questa occasione sono davvero terrificanti e sono state rese note solo anni dopo, quando è caduta la censura americana sulle questioni legate alla guerra (si pensi che erano vietate perfino pubblicazioni di articoli medici ed anche la parola “atomico” era stata tolta dal vocabolario fra il 1945 e il 1954); 3) Napalm girl (1972) di Nick Út, che ha documentato le conseguenze della guerra in Vietnam sulla popolazione civile; 4) Bambino con avvoltoio di Kevin Carter (1993) che documentava la terribile carestia in Sudan. Un’immagine sicuramente shockante, anche per il fotografo, che si suicidò perché accusato di esser lui il vero “avvoltoio”, non molto dopo aver scattato la fotografia.
Post-verità è un termine con cui si indica la mancanza di fatti a favore delle sole interpretazioni. In fotografia già la scelta sui parametri di scatto determina, nell’immagine che si andrà a produrre, un’interpretazione dell’avvenimento. Non è forse che una delle “disfunzioni” della nostra società risieda nel non aver compreso la “vera natura” dell’apparecchio fotografico?
Nel mio libro mi sono occupato soprattutto di fotoreporter attivi durante delle guerre del XX secolo, ma le prime foto che raccontano gli orrori della guerra risalgono alla guerra di secessione negli USA, dove venivano mostrati i “campi di concentramento” sudisti. Nel libro riporto anche le riflessioni di Susan Sontag a proposito, perché mi sembrano molto pertinenti. Inoltre non dobbiamo dimenticare che comunque, sia nel caso della guerra di secessione americana, sia nel caso della seconda guerra mondiale, le foto che sono a nostra disposizione sono state prese dai vincitori. Questo non squalifica in alcun modo il valore documentario delle foto, esse sono dei documenti storici, ma dobbiamo ricordare come gli apparecchi fossero orientati dall’occhio del vincitore.
Per tornare a Susan Sontag, nei suoi testi diceva che la foto (ma lo stesso potrebbe dirsi per un articolo di giornale) mette a disposizione uno stralicio di “verità” o comunque un’informazione, ma bisogna poter saper scegliere fra le varie opzioni, o visioni. Ovvero, bisognerebbe saper discernere sull’utilizzo che si fa di quell’informazione, magari prediligendo quelle fonti che non se ne servono per produrre un titolo ad effetto. Il problema è che il pubblico raramente fa questo tipo di operazione, scegliendo non tanto la qualità dell’informazione ma ciò che risulta più “godibile”. Di fatto, quindi, è il mercato a decidere. E il mercato siamo un po’ tutti noi.
Quello di post-verità è un concetto molto complesso, che andrebbe collegato a quello di post-democrazia coniato all’inizio degli anni duemila dal sociologo e politologo Colin Crouch per riferirsi alla condizione che si era creata nell’Italia di Berlusconi. La post-democrazia implica già post-verità perché il rapporto fra il potere politico e la cittadinanza non è più fatto di dinamiche politiche, di analisi, di dibattiti, ma di emozioni istantanee. Ci si riferiva a Berlusconi, ma l’esempio di Trump con i suoi tweet è assolutamente calzante. L’osservazione di questo fenomeno è interessante, perché di fatto tutti noi attiviamo dei sistemi di difesa e tendenzialmente preferiamo i 160 caratteri di un tweet rispetto ad un discorso articolato che può radicarsi nel tempo, perché è più emotivamente appagante, o “godibile” come diceva Susan Sontag. Con i social network, poi, si arriva ad una vera e propria degenerazione che determina la vittoria assoluta dell’immagine sul concetto. Se non c’è maturità, anche di fronte ad un’immagine importantissima, prevale la tendenza a spegnere il proprio cervello.
Oggi l’enorme quantità di immagini a cui siamo sottoposti (penso a social network come Instagram) ci riporta in un flusso in cui è solo il presente, eternamente reiterato, ad avere importanza. Con questo flusso stiamo cercando di negare la (nostra) morte?
Sempre Susan Sontag affermava che ogni “vera” foto è un memento mori. Questo è un tema che Freud ha affrontato ampiamente e ha rilevato come sia la regola quella di negare la morte poiché nell’essere umano permane un istinto di vita: dunque la morte, come percezione, è sempre quella di qualcun altro. E qui mi ricollego alla mia ricerca sulla paranoia, che rappresenta il massimo della semplificazione possibile. In termini psicanalitici si parla di un meccanismo di scissione e proiezione. Tutto ciò che è male è proiettato sull’altro, “scisso” da me. Quindi, quand’anche un individuo avesse la consapevolezza di non essere perfetto, la tendenza è di addossare a qualcun altro la responsabilità del “male”. E questo non avviene solo nei casi patologici e quindi – ad esempio – non solo nel caso di Hitler con gli ebrei o nell’ideologia razzista. Qual è la famiglia (fra coniugi, o fra genitori e figli) in cui non si innesca questo meccanismo di attribuzione del male ad una responsabilità altrui? Questo meccanismo di scissione e proiezione è esattamente lo stesso che si verifica nei confronti della morte così come descritto da Freud: un meccanismo falsificatorio ma normale. La modernità ci offre dei grandi mezzi per ampliare la nostra conoscenza, per sapere di più, ma se questi mezzi non sono usati in modo appropriato confermano solo i nostri errori e falsificazioni.
La fotografia ha consentito una democratizzazione dell’immagine e anche la possibilità di collettivizzare un ricordo. A cosa serve una democrazia se non è possibile il confronto su delle basi comuni?
Nel mio libro parlo anche del documentario Shoah di Claude Lanzmann, in cui le immagini riconducibili alla morte sono presentate come susseguirsi di fotografie. Questo proprio per non dare allo spettatore la possibilità di immediesimarsi in un flusso, in un’azione che si sta svolgendo. La Shoah, infatti, è un fatto storico, qualcosa che è già avvenuta e la necessità documentaristica di mostrare certe immagini non vuole sfociare nella “celebrazione” della morte. C’è una sorta di tabù dell’immagine atroce.
Al giorno d’oggi certamente abbiamo moltissimi documenti, ma spesso sono usati male. Per tornare all’esempio della guerra fra Giappone e Stati Uniti, è chiaro che la superiorità bellica degli USA fosse pressoché totale, ma quel che davvero conta del risultato della Seconda guerra mondiale è che una democrazia ha vinto su un regime dittatoriale.
Eppure se analizziamo le immagini che sono state prodotte durante o subito dopo la guerra, ci accorgiamo che prevale la volontà di celebrare quell’eroismo militaresco che è figlio di un certo tipo di paranoia. Quindi, anche in questo caso, assistiamo in qualche modo ad un’opera di falsificazione. Falsificazione che mi pare simile a quella dell’industria cinematografica di Hollywood, che penso abbia delle responsabilità nel processo di deterioramento del nostro modo di interfacciarci con un’opera e di servircene in senso sociale. Hollywood, infatti, attraverso del meccanismo dell’happy ending ma anche quando celebra un certo tipo di eroismo ha eliminato la “tragedia” dal nostro orizzonte culturale e psicologico.
intervista a cura di Michele Lipori
2 novembre 2018
[pubblicato su Confronti 11/2018]