È sempre una suggestiva esperienza di intelligenza, spesso striata di ironia e arguzia, seguire Paola Mastrocola nelle riflessioni sulle opere e i giorni del nostro tempo che compone nelle sue “paginette” del «Domenicale».
Ancor più intense sono le storie, nutrite anche della sua esperienza didattica, offerte dai suoi romanzi, a partire (per me) da quella Barca nel bosco, col malinconico eppur vivace ritratto del ragazzo “latinista” amaramente frustrato da un liceo tanto atteso e tanto deludente. Ma è la recente opera della scrittrice torinese, edita da Einaudi, che vorrei evocare, non certo per una recensione (che non mi compete), bensì per il soggetto sorprendente che ne regge la trama, cioè la preghiera.
Infatti Leone, esile bimbetto di sei anni protagonista del libro fin nel titolo, si configura progressivamente come il ritratto del perfetto orante, sia pure nelle caratteristiche della sua personalità così germinale eppure cristianamente così matura. In lui senza esitazione possiamo veder incarnato il detto di Cristo: «Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli e chi si farà piccolo come un bambino sarà il più grande nel regno dei cieli» (Matteo 18,3-4). Se volessimo stare alla tradizione giudaica, a questo ragazzino immerso nel vuoto umano e spirituale della sua famiglia un po’ sghemba (esclusa la sua vera “maestra” e madre di fede, la nonna) si potrebbe applicare la definizione che si assegnava al re Davide, considerato l’autore dei 150 Salmi biblici: «egli non diceva preghiere, era lui stesso preghiera».
Ed è per questo che il piccolo Leone irradia il respiro contagioso dell’orazione, tant’è vero che attorno a lui, nella sua piccola casa, una folla s’accalca: «pregavano e in quel pregare trovavano la loro pace». Ma, per stare a Davide – «colui che… fu il cantor de lo Spirito Santo…, sommo cantor del sommo duce», come lo esalta Dante nel Paradiso (XX, 37-38; XXV, 72) a causa dell’attribuzione fittizia a lui dell’intero Salterio – vorremmo proporre quel grande spartito della preghiera ebraica e cristiana, ancor oggi fondamentale, costituito dai Salmi.
Nell’originale ebraico questi canti oranti, sospesi tra le alture della contemplazione divina e la polvere e persino il fango delle miserie, delle sofferenze e delle colpe umane, assommano a 19.531 parole, il terzo libro antico-testamentario per ampiezza dopo quello del profeta Geremia e la Genesi.
Proprio a causa del suo genere letterario che intreccia in sé culto e poesia, orazione e vita, spiritualità e musica, fede e lirica, è necessario, per poter gustare il Salterio, avere una guida policroma che comprenda l’analisi filologica e l’approfondimento teologico ma che sia anche capace di far esalare la fragranza del canto, così come scavarne le radici umane fatte di riso e lacrime, di eventi storici nazionali e di vicende personali non sempre esaltanti. È ciò che ha saputo realizzare col suo commento imponente, ma costruito su spiegazioni lievi e affascinanti, Ludwig Monti, monaco della nota comunità di Bose, la quale quest’anno celebra i suoi cinquant’anni di storia. La lettura è, sì, da lui condotta con tutta la strumentazione esegetica e con un’invidiabile attrezzatura culturale. Tuttavia, quelle 150 composizioni sono soprattutto preghiera, «un canto orante ogni giorno e per ogni giorno», come suggeriva il filosofo mistico Abraham J. Heschel. Ed è per
questo – nella linea del piccolo Leone – che esse aspirano a diventare fede e carne, spiritualità e umanità. Come il protagonista del romanzo di Mastrocola che prega anche per la mamma malata di un compagno o per la vittoria sportiva della squadra della sua classe, così i Salmi biblici riportano a Dio non solo l’alta contemplazione del creato come palinsesto di un suo messaggio, ma registrano anche un attacco di febbre che fa tremare le ossa o un’inappetenza che rende il cibo simile a cenere o l’amarezza di una sconfitta di Israele. È, quindi – come spiega Monti guidando il lettore nei versi delle suppliche o degli inni, delle meditazioni o delle confessioni salmiche – l’intero essere umano a pregare, è il respiro dell’anima, necessario quanto quello della gola (curiosamente in ebraico “anima” e “gola” si esprimono con un unico vocabolo, nefesh) per non morire, come dichiarava Kierkegaard.
Ma il credente, cantando il Salterio, scopre di aver accanto non solo l’umanità e il popolo biblico ma anche Cristo e, con lui, la Chiesa che da sempre intona nella sua liturgia proprio quei canti. Se volessimo usare un vocabolo folgorante adottato da Teilhard de Chardin, potremmo dire che, attraverso il commentario di Monti, non si ha solo la teofania, cioè lo svelamento del divino presente in quei canti, ma anche la “diafania”, cioè la trasparenza dell’umano. È per questo che un insospettabile testimone come Nietzsche affermava che «tra ciò che noi proviamo alla lettura di Pindaro e Petrarca e la lettura dei Salmi c’è la stessa differenza che intercorre tra una terra straniera e la patria».
E dato che abbiamo aperto uno squarcio nell’orizzonte luminoso – eppur percorso da brividi di tenebra – dell’orazione, alleghiamo anche un libretto essenziale, composto da un altro importante esegeta, lo svizzero Daniel Marguerat. Il titolo echeggia uno dei motti tradizionali che anche chi ora non è più credente ha nell’orecchio, se nella sua adolescenza ha frequentato una scuola o un collegio cattolico: La preghiera salverà il mondo, detto analogo a quello più infiammato: «chi prega si salva; chi non prega si danna». In verità è solo Dio che può redimere questa sgangherata storia umana, ma – come osserva l’autore – «è giusto che il mondo desideri di essere salvato e pregare è lasciare che Dio venga a noi e operi in noi la salvezza». Similmente è curioso che nella Bibbia, che dovrebbe essere per eccellenza “parola di Dio”, ci siano i Salmi che sono appunto invocazioni umane, così umane – come nota Marguerat – da esplodere in sentimenti incendiari di collera.
Come diceva il teologo martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer, quelle del Salterio sono le parole che Dio desidera sentirsi dire da noi in totale libertà e sincerità, un po’ alla maniera di Giobbe il cui urlo è, in realtà, orante, e Lutero su questa base non esitava ad affermare che Dio gradisce di più il grido fin blasfemo dell’uomo disperato che non le lodi compassate del benpensante benestante la domenica mattina durante il culto. Marguerat dice tanto altro nelle sue poche pagine a partire da un intenso commento alla preghiera suprema del cristiano, il Padre nostro, nella consapevolezza che «pregare ci trasforma». Non per nulla laicamente Wittgenstein assicurava che «pregare è pensare al senso della vita», e i Salmi e il Padre nostro ne sono una limpida conferma.
Gianfranco Ravasi
18 novembre 2018
Il Sole24Ore