La giovane milanese era in Kenya con la onlus Africa Milele, è stata aggredita poi rapita da un commando che cercava proprio lei. Non era lì per caso, ma per lavorare nella cooperazione internazionale.
Silvia Romano, 23enne di origini milanesi è stata rapita lunedì 20 novembre attorno alle 20 a Chakama, a 80km da Malindi in Kenya. Ad agosto, come racconta sulla sua pagina Facebook, era in un orfanotrofio a Likoni con la onlus Orphan’s dreams, poi era tornata in Italia e, da poco, era ripartita con un’altra organizzazione, Africa Milele, e si trovava in un villaggio in mezzo alla foresta dove un commando l’ha aggredita poi portata via, in un attacco in cui cinque persone sono rimaste ferite.
Non era per lei una vacanza o un momento transitorio di libertà lontano da casa, ma una scelta compiuta con piena volontà ed entusiasmo; l’accudimento e l’educazione dei bambini orfani era la strada che voleva seguire: a febbraio si è laureata a Milano in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani. Per quanto ancora molto giovane aveva un’intuizione chiara sul suo posto nel mondo, l’esperienza sul campo l’ha ora catupultata nel lato più oscuro di quel compito educativo che viveva con passione indomita.
Un agguato mirato e violento
Le ultime notizie informano dell’arresto di 14 persone in relazione al rapimento di Silvia; la polizia ha tolto i sospettati al linciaggio della folla. Sarebbero complici o persone informate sul caso. Nella contea è arrivato l’esercito, insieme a un ingente dispiegamento di forze.
Le ricerche si concentrano nella vicina foresta, spesso usata come nascondiglio per i rapimenti. Inizialmente i sospetti si concentravano sulla pista islamica, ma tale ipotesi non è tuttora corroborata da prove evidenti. Non si esclude che lo scopo di questa azione sia esclusivamente il ricatto, da cui l’ipotesi che qualcuno del villaggio “abbia venduto” la ragazza ai Somali, cioè abbia dato le informazioni su di lei alle bande organizzate in questo genere di rapimenti a scopo di estorsione:
Col passare delle ore sembra tramontare l’ipotesi che il sequestro sia opera degli Al Shabaab, gli integralisti islamici somali che seminano da anni il terrore in Somalia come in Kenya, lasciando alle loro spalle decine e decine di morti. (…) Ma l’ipotesi più seguita è che si tratti di criminalità comune. Anche se in una regione così povera e tormentata non è raro che gli ostaggi passino di mano in mano, al miglior offerente, e non è quindi escluso che Silvia possa essere venduta dal gruppo e finire prigioniera degli islamisti. (da Repubblica)
Resta la testimonianza di una violenza inaudita: sarebbe stato un commando di almeno sei-otto persone ad agire, che intendeva rapire proprio lei. La ricostruzione dei fatti, emersa dalla voce di un testimone, parla di aggressione efferata:
Due giorni fa, verso sera, i rapitori hanno scatenato il terrore (…) armati di kalashnikov e machete. Hanno fatto irruzione nella casetta di mattoni d’argilla che ospita i volontari della Ong. Lei era, anzi è la mia migliore amica – ha detto Ronald Kazungo, 18enne che grazie alla Ong ha potuto studiare – La stavo aiutando a passare in rassegna le pagelle dei suoi ragazzi, quelle arrivate e quelle mancanti. Mi hanno chiesto dov’è la ‘mgeni’, la straniera? Ho detto che era uscita a procurarsi un caricabatterie, ma non mi hanno creduto. Si sono diretti un’altra stanza e l’hanno trovata”. Quando uno del commando ha avuto conferma sull’identità della ragazza, è partita una violenza senza senso: “Ha iniziato a schiaffeggiarla forte finché è caduta a terra. Silvia mi chiamava, chiedeva aiuto, io ho cercato di spingere via l’uomo che la immobilizzava a terra, per legarle le mani dietro la schiena, ma qualcuno mi ha colpito alla testa con un machete e ho come perso i sensi. Lei gridava: ‘scappa, mettiti in salvo’. (da Libero)
Quelli che … “se l’è andata a cercare”
Bisogna mettere le mani avanti, bisogna puntare l’indice contro. Sul banco degli imputati c’è finita Silvia, troppo giovane, troppo entusiasta, troppo ingenua. C’è chi si prodiga a specificare che era stata dissuasa dall’andare proprio in quel villaggio e lo fa, forse, sentendo incombere su di sé il peso della responsabilità; il fondatore della Onlus con cui la ragazza aveva collaborato in precedenza, Davide Ciarrapica, è uno dei pochi conoscenti che ha rilasciato dichiarazioni in queste ore e afferma a voce alta che lui l’aveva messa in guardia, che non era sicuro stare a Chakama, in mezzo alla foresta con il presidio di polizia più vicino a 180 km di distanza.
Silvia sapeva; e Silvia aveva una passione non campata per aria ma verificata nel percorso di studi che aveva fatto. Stava mettendo in piedi un’ipotesi di vita con l’intraprendenza anche eccessiva, nell’entusiasmo, di chi ancora ha gli occhi puri nel guardare degli ideali grandi.
La sua bacheca Facebook è piena di frasi che ci suggeriscono un caparbio attaccamento al positivo della vita, un interesse aperto a sondare la bellezza del donarsi, il sogno di essere accanto ai piccoli più vulnerabili. Non conoscendola personalmente, s’intravede in lei una forza di cui tante volte lamentiamo la mancanza nei figli grandi e “bamboccioni”.
Una sua amica ha dichiarato:
«A chi dice che poteva stare “tranquilla” in Italia rispondiamo semplicemente che il suo sogno è aiutare i bambini nei Paesi in via di sviluppo. Ha studiato per quello, lotta per quello in cui crede, sul campo, ha imparato tre lingue oltre all’italiano, vuole lavorare nella cooperazione internazionale e deve fare esperienza. È riuscita a trovare, subito dopo la triennale, questa sorta di stage presso la onlus Africa Milele di Fano, nelle Marche, come volontaria, dopo l’esperienza di agosto con la Orphan’s Dreams. Ha calcolato i rischi, noi ragazzi siamo tutti con lei» (da Corriere)
Correre un rischio provoca sempre una frattura, può davvero portare conseguenze non calibrate fino all’ultima fibra di cervello. Applicato ad altri contesti il rischio è applaudito anche se significa solo irrazionalità sfrenata; in questo caso la spinta di un desiderio grande, impetuoso come tutti i nostri ideali giovanili, stava seguendo un percorso ragionato, coraggioso, messo alla prova per la prima vera volta sul campo.
Mi auguro e prego che Silvia venga liberata al più presto, e spero sia lei a raccontarci presto la sua versione dei fatti, che ci riguarda tutti e tocca domande decisive: che ne è di un ideale buono quando si scontra col male? E’ tradito in modo irreparabile il nostro desiderio di fare il bene quando il contrappeso è una perdita grave? Dare la vita per gli altri è solo un bel sogno da ingenui? E’ meglio non affacciarsi oltre la porta di casa e starsene al sicuro?
Annalisa Teggi
Aleteia, 22 novembre 2018