Chi abortisce, chi non riesce a diventare madre. Il presule alla clinica Mangiagalli di Milano dà voce ai «lamenti proibiti», quelli censurati dal pensiero unico e dal «politicamente corretto».
I lamenti ingiustificabili e quelli che trovano la loro ragione nel cuore ferito dal dolore; i lamenti che sono dappertutto in città e quelli che sono proibiti perché bisogna uniformarsi al pensiero dominante e all’ideologia. Proibiti, insomma, dal politicamente corretto.
A dirlo, con parole che lasciano il segno, è l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, che, come tradizione, giovedì ha presieduto la celebrazione eucaristica per il Natale e ha ricordato la solennità dei Santi Innocenti Martiri del 28 dicembre presso la chiesa della Clinica “Luigi Mangiagalli” all’interno della Fondazione Ca’ Granda Ospedale Maggiore di cui ha visitato alcuni reparti, anche di patologie pediatriche.
E, forse, non è un caso che proprio nella struttura dove nasce un bambino ogni ora e commentando il Vangelo che racconta la strage degli innocenti, abbia dato voce ai lamenti «proibiti», siano quelli delle donne che vorrebbero essere madri e non riescono, sia di coloro che decidono, con l’interruzione volontaria della gravidanza, di non diventarlo. Lamenti e pianti negati, «che devono essere consumati di nascosto nella città resa, anche nella sua bellezza, ingrigita, resa opaca, sgradevole dal lamento della vita ordinaria. Proibiti dal politicamente corretto – ha sottolineato il presule in omelia – perché bisogna tutti adeguarsi ai luoghi comuni e alle idee correnti. Tutti possono lamentarsi eccetto le donne che desiderano un bambino e non riescono ad averlo». Un lamento che nella società contemporanea, seppure è il frutto di una incompiutezza di desiderio legittimo è, talvolta, censurato, «perché sembra che generare figli sia diventata una specie di imprudenza, di spesa per la società, un vincolo alla libertà».
Arriva, così, l’affondo nelle parole dell’arcivescovo. «È proibito lamentarsi anche alle madri che hanno rinunciato alla maternità con l’interruzione volontaria della gravidanza che sembra un diritto da rivendicare. Quindi, occorre nascondere il senso di colpa che questa scelta drammatica, qualche volta, e, qualche altra, assunta con troppo sbrigativa superficialità, porta con sé. Come si fa a lamentarsi di aver esercitato un diritto? È proibito dire quale dramma e senso di colpa che può accompagnare la vita intera, può essere abituale per chi ha fatto questa scelta. Ci sono lamenti che quasi vengono applauditi quando diventano proteste e lamenti che sono rimproverati quando vogliono esporsi in pubblico per chiedere di ripensare a questo capitolo complicato», ha detto Delpini in omelia.
«Ma in questo luogo così significativo per tale problematica – quella, appunto, della maternità alla “Mangiagalli” – ci viene detto che Dio ascolta il grido e il lamento anche se gli uomini sono portati a una sorta di censura di alcune sofferenze per sostenere un’ideologia». Quella, magari, che va per la maggiore in una società dove a lamentarsi, nota sempre l’arcivescovo, sono un po’ tutti, a ragione o a torto.
«Mi pare – ha riconosciuto il presule – che ci sono tante buone ragioni per lamentarsi, ma anche tante sbagliate: c’è un lamentarsi che è frutto di una pretesa, di un’anima amareggiata più che di una situazione obiettivamente ingiusta o disagiata. Un lamento che si sente anche sui mezzi della comunicazione e che diventa sfogo, rabbia e parola aggressiva».
«Noi – ha assicurato l’arcivescovo – vogliamo essere vicini a coloro che soffrono, che piangono e si lamentano, non per abitudine al malumore, ma per ferite profonde che interrogano Dio e provocano la vicinanza e la solidarietà degli altri. Raccogliamo tutto questo pianto e chiediamo che Dio, come sempre fa, ascolti e, quindi condivida, consoli e ricolmi della sua gioia».
Annamaria Braccini
Avvenire.it, 21 dicembre 2018