Negli ultimi mesi il New York Times ha pubblicato un’inchiesta a puntate sulle discriminazioni affrontante dalle madri sul posto di lavoro, sia durante la gravidanza che dopo il parto. Per rendersi conto della gravità della situazione basta leggere il titolo di uno di questi articoli: “Abortire spontaneamente sul posto di lavoro: il sacrificio fisico della discriminazione della gravidanza”. In esso si raccontano le drammatiche storie di operaie che hanno perso i figli che portavano in grembo a causa delle pessime condizioni di lavoro a cui erano soggette: turni di 12 ore in capannoni privi di aria condizionata, pause centellinate con il contagocce, obbligo di sollevare carichi pesanti, divieto di sedersi o di andare in ospedale anche in presenza di crampi e sanguinamenti… Tutte queste donne dichiarano di aver implorato di essere trasferite a mansioni adatte al loro stato e di aver presentato certificati medici attestanti i rischi della loro condizione (come se servisse un certificato per capirlo!) ma di non aver ottenuto nessun miglioramento. Una di loro afferma che il proprio responsabile, come risposta alle sue richieste, le suggerì di abortire.
In un altro articolo della serie il New York Times ci informa che discriminazioni sulle impiegate in dolce attesa avvengono anche a Planned Parenthood, la più grande catena di cliniche abortive degli Stati Uniti. Ciò sarà una sorpresa per molti di voi, sia per coloro che non sapevano che esistono cliniche in cui le persone non pagano i medici per migliorare la propria salute ma per uccidere bambini, sia per coloro che lo sapevano ma si stupiscono che un’azienda che vende interruzioni di gravidanza abbia poco rispetto per le gravidanze delle proprie dipendenti. La cosa ha stupito anche la signora Hairston, che “credeva non ci sarebbe stato posto migliore in cui lavorare durante la gravidanza di una clinica che ogni giorno si occupa di donne incinte” fino a quando lei stessa è rimasta incinta, si è ammalata di ipertensione ed è stata obbligata a continuare a lavorare per dieci ore al giorno senza pause regolari, cosa che l’ha costretta a sottoporsi a un cesareo di urgenza, che per fortuna è andato a buon fine. Dopo il parto la società ha chiesto alla signora di tornare in servizio prima dei tre mesi di permesso che le spettavano e lei, esasperata, si è dimessa. Questa triste storia dimostra quanto siano pervasive e letali le bugie che la nostra società diffonde tramite i media, la scuola, la politica, i sindacati e ogni altro centro di potere. Ci sono persone veramente convinte che chi vende il prodotto aborto etichettandolo come un diritto sia interessato ai problemi delle madri che prendono questa terribile decisione spesso costrette da qualcun altro, e queste persone, come la signora Hairston, a volte scoprono la dura verità dopo averla sperimentata sulla propria pelle (e su quella dei propri figli). La signora Hairston e le altre protagoniste di queste storie non hanno avuto il sostegno di nessun gruppo femminista e nessuna star di Hollywood ha twittato in loro favore. Ma cos’altro ci si può aspettare dagli oracoli della cultura della morte, dell’edonismo e dell’egoismo, se non indifferenza per donne che chiedono rispetto per la salute dei propri figli e per il proprio desiderio di essere madri?
Siamo sicuri che anche tu che ci stai leggendo conosci almeno una donna che ha avuto problemi lavorativi a causa della maternità, o magari sei proprio tu quella donna. In Italia esistono leggi che dovrebbero impedire queste discriminazioni ma le leggi non servono a niente se la mentalità corrente ritiene che la gravidanza non è una benedizione ma un fardello di cui ci si può liberare per la minima difficoltà, non un arricchimento per la vita di una donna ma un impedimento alla realizzazione dei suoi sogni, non un dono da proteggere ma una scocciatura che merita punizioni adeguate. Questa battaglia culturale riguarda ognuno di noi, e ognuno di noi prima o poi deve decidere da che parte stare. Tu cosa decidi?
Maternità e mondo del lavoro al tempo del #metoo