Bergamo. Il Villaggio solidale dove si ricuce la vita

By 16 Gennaio 2019Testimoni

A Lurano, in provincia di Bergamo, la scelta controcorrente di chi fa dell’accoglienza e della prossimità un vero e proprio stile di vita.

Il Villaggio Solidale è un nuovo quartiere all’interno del Comune di Lurano, in provincia di Bergamo, un “Incubatore Sociale” che punta a costruire una comunità per minori, nuclei monoparentali e persone disabili in cui, famiglie, volontari ed operatori, offrano supporto ed accoglienza a chi si trova in situazioni di fragilità e solitudine

Al piano terra c’è anche una sartoria, la metafora su misura di ciò che quotidianamente qui avviene: si prova a ricucire anime, si aggiustano esistenze. Con il filo speciale del sentimento ma soprattutto della concretezza, dell’attenzione in un mondo dove la «fragilità della solitudine dilaga». Lurano è un paesotto della pianura bergamasca, nemmeno tremila anime. La campagna resiste ancora, affacciata ai lati strade intasate che portano fino a Bergamo; lì in mezzo – ecco l’altra metafora – è ora atterrata un’astronave, costruita proprio come una vecchia cascina ottocentesca, ma persino ecosostenibile. L’astronave è in realtà uno scrigno colmo di aiuto.

Si chiama “Villaggio Solidale”, questa nuova avventura di speranza. Lo ha realizzato il Consorzio Fa (acronimo di Famiglie e Accoglienza, realtà sociale ormai storica nata nel 1986 nella vicina Brignano Gera d’Adda), dando vita a un esperimento pressoché unico in Italia di “incubatore sociale”: diciotto appartamenti, una comunità alloggio, un “servizio formazione autonomia” per ragazzi disabili, poi altri spazi comuni e commerciali.
Nel Villaggio di Lurano vivono quattro famiglie volontarie che hanno scelto di mettersi al servizio degli “altri”, i loro appartamenti hanno sempre le porte aperte per i vicini. Vicini speciali: il Villaggio accoglie ragazze madri, persone uscite da comunità, donne vittime di violenza con i piccoli figli, giovani provenienti da situazioni di fragilità, disabili. Sono trenta gli ospiti degli appartamenti, da tutta la Lombardia, metà italiani e metà stranieri, due terzi sono i bambini. Da quegli appartamenti provano a trovare autonomia: nel Villaggio c’è anche uno spazio dove si curano i preparativi per i catering e due giovani già vi lavorano percependo uno stipendio, una donna si occupa delle pulizie, altre tre persone sono impegnate tra la sartoria e la stireria semindustriale, poi ci sono i negozi che vendono abiti usati, e c’è infine chi si occupa di preparare confetture con i frutti della terra locale.

Benvenuti in un nuovo modo di fare accoglienza. Le prime famiglie sono qui da luglio, gli ultimi lavori per rifinire le strutture sono ancora in corso. «L’ispirazione ce l’ha data il Villaggio Mafalda a Forlì. Volevamo realizzare un luogo che non fosse solo per l’accoglienza, ma che desse soprattutto possibilità di reinserimento – racconta Francesco Fossati, intraprendente presidente del Consorzio Fa –, permettendo agli ospiti di diventare indipendenti e superare le fragilità. La permanenza dura 18 mesi: sei mesi per orientarsi, sei mesi per iniziare un reinserimento, sei mesi per programmare l’uscita dal Villaggio». Ci sono episodi che già segnano, in positivo: «Una sera, una delle mamme con fragilità ospiti del Villaggio s’era dimenticata di fare la spesa e non aveva da mangiare – ricorda Fossati –. Ci siamo trovati tra noi educatori per capire che messaggio darle. Alla fine, mentre noi ancora discutevamo, un vicino di casa (un altro ospite proveniente da fragilità, ndr) l’ha risolta in un attimo: «Io cucino, tu lavi i piatti», le ha proposto. Questa è la forza del Villaggio: far crescere gli ospiti, camminare insieme verso la normalità. Qual è la fragilità che più impegna oggi? Non ce n’è una in particolare: è la fragilità della solitudine a dilagare».

Le famiglie volontarie sono i protagonisti silenziosi ma fondamentali. Lucia Gatti ha scelto questa missione dagli anni Novanta insieme al Consorzio Fa: «Con mio marito e una ragazza con disabilità accolta anni fa, siamo nel Villaggio da luglio. Essere vicini di casa vuol dire tenere la porta aperta non solo per far entrare, ma anche per mettere fuori la testa cercando di cogliere le difficoltà degli altri: ci si confronta dando un consiglio, un parere, un’istruzione. Lo scambio arricchisce tutti». Da lungo tempo, con emozioni impagabili. Lucia Gatti ne racconta una: «Molti anni fa, accogliemmo un neonato con la sindrome di Down appena abbandonato in ospedale. Lo tenemmo solo pochi mesi, in attesa che si definisse il percorso di adozione da parte di un’altra famiglia. Andò a vivere nel Centro Italia, poi a quindici anni tornò casualmente al Nord per una visita medica: la famiglia volle incontrarci per permettere al ragazzo di conoscerci. Ora quel ragazzo ha 19 anni e una vita normale. Oppure c’è l’esperienza di un ragazzo che ci fu affidato a 13 anni, veniva da un contesto familiare difficilissimo: oggi ha 38 anni e un figlio che cresce bene, senza problemi. Se i percorsi non si interrompono, il riscatto si realizza».

La sfida è aperta, il Villaggio è un investimento da 4,3 milioni di euro per 7.500 metri quadrati di superficie totale. «Quando il progetto è partito sembrava dovesse atterrare un’astronave, magari aleggiavano certe voci: “Arrivano quelli che aiutano i migranti e i tossicodipendenti”. Invece – sottolinea Fossati – la risposta del territorio è stata molto positiva: il legame con la parrocchia è molto stretto così come quello con le istituzioni e in breve tempo abbiamo trovato un gruppo numeroso di volontari. Sono venuti alla spicciolata, spinti dalla curiosità, e subito si sono resi disponibili».
Il «sogno paradossale» di Francesco Fossati è declinato con un sorriso: «Aprire un secondo Villaggio sarebbe un fallimento. La gente che passa da qui vorremmo si portasse in casa questo esempio: quello che facciamo noi, cioè fare rete tra famiglie e aiutare chi è più in difficoltà, si può fare nel proprio condominio. Succedeva trent’anni fa, in fondo: riproviamoci».

Luca Bonzanni

22 dicembre 2018

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