Alla fine, i due provvedimenti simbolo del governo giallo-verde sono arrivati in porto con il loro carico di forti attese e di altrettanto grandi incognite. Il Reddito di cittadinanza e la (parziale) revisione della legge Fornero con “quota 100” per le pensioni, infatti, rappresentano certamente una svolta nella politica sociale del Paese, con una forte iniezione di risorse ed energie dedicate da un lato a chi non ha niente, neppure un lavoro, e dall’altro a coloro che, invece, il lavoro intendono lasciarlo a un’età – 62 anni – non troppo avanzata. Una sterzata che assomiglia molto a una manovra suggestiva e azzardata per la quantità di fondi impegnati, probabilmente sottostimati, e dall’efficacia tutta da verificare. Una “grande scommessa” buttata sul tavolo quasi a “occhi chiusi”, proprio nel momento in cui la congiuntura sta peggiorando in tutt’Europa e in Italia torna ad affacciarsi lo spettro di una recessione, con la previsione di crescita dell’1%, stimata dal governo, che appare sempre più lontana dalla realtà.
Il provvedimento sulla pensione anticipata a 62 anni d’età e con almeno 38 anni di contributi – fortemente voluto dalla Lega – rischia di essere un “regalo” assai costoso a una platea di lavoratori non in difficoltà, anzi tra i più “forti” nel mercato del lavoro: uomini, in prevalenza del Nord, con carriere continuative. Le donne, infatti, non riescono quasi mai ad accedere alle pensioni anticipate perché non arrivano ad accumulare così tanti anni di contribuzione (oggi in media vanno in pensione con 26 anni di versamenti). Lo stesso dicasi per buona parte dei dipendenti del Mezzogiorno, le cui carriere lavorative sono assai discontinue. A differenza di altri provvedimenti assunti in passato, come l’Ape sociale, non si viene incontro tanto a categorie di lavoratori “usurati” o in difficoltà, ma più semplicemente si riapre un canale di pensionamento anticipato per far prendere ad alcuni un ultimo treno previdenziale relativamente “generoso”. Tanto che la misura sarà sperimentale per tre anni e molti esperti di previdenza, anche vicini alla Lega, ne temono gli effetti sui conti pubblici e sullo stesso mercato del lavoro. Sostenere infatti, come fanno alcuni esponenti del governo, che per ogni pensionato le aziende assumeranno tre giovani, è solo un’illusione. Tanto più in una fase di “stanca” della produzione e di forte automazione in fabbriche e uffici. Una certa flessibilità in più rispetto alla rigidità e all’inarrestabile incremento dell’età pensionabile previsto dalla Fornero era probabilmente necessario. La “quota 100”, che costa 4 miliardi nel 2019 e 22 a regime, però, rischia di avere un effetto esplosivo sui conti pubblici.
Il Reddito di cittadinanza (Rdc) sconta analoghi criticità assieme a maggiori aspetti positivi. Una concreta misura di contrasto alla povertà, infatti, era certamente necessaria dopo anni di inazione e la portata insufficiente del (pur ben congegnato) Reddito di inserimento (Rei). Negli ultimi mesi, inoltre, il provvedimento del governo è stato affinato. Così il Rdc si è trasformato da velleitario reddito universale incondizionato a un più realistico sostegno alle situazioni di povertà e per il re-inserimento al lavoro, con una serie di stringenti condizionalità. È stata anche recepita la necessità di prevedere un percorso parallelo, con la firma del “Patto di inserimento”, per i nuclei in cui non è la semplice mancanza di lavoro la ragione prima della caduta in povertà. Ancora, utile la scelta di coinvolgere i soggetti privati nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e il sistema premiale sia per chi colloca sia per chi assume i disoccupati, visto che i Centri per l’impiego (Cpi) da soli non potranno fare tutto. Soprattutto, è notevole la base di partenza dell’assegno, pari a 500 euro più 280 di contributo per l’affitto (per chi è a reddito zero).
Nella costruzione del provvedimento, però, sono rimasti anche alcuni difetti, a partire proprio dall’entità dell’assegno, uguale in tutta Italia nonostante le forti differenze nel costo della vita, e soprattutto il moltiplicatore troppo basso previsto per gli altri componenti la famiglia oltre il primo, che penalizza in particolare i minori e i nuclei più numerosi, proprio quelli maggiormente colpiti dalla povertà. Il tentativo di contenere i costi complessivi e l’esigenza politica di non scontentare la ‘pancia’ del proprio elettorato, poi, hanno indotto i gialloverdi a prevedere un requisito di 10 anni di residenza continuativa in Italia che potrebbe risultare discriminatorio – e perciò anticostituzionale – per i tanti residenti stranieri in povertà.
Critico, infine, anche il trattamento dei disabili ai quali era stato promesso l’aumento delle pensioni di invalidità (oggi a 282 euro al mese) e che solo in un quarto dei casi (260mila su 1,1 milioni) rientreranno fra i soggetti considerati talmente poveri da aver diritto al contributo di 500 + 280 euro al mese. Coloro che, invece, hanno familiari conviventi con altri redditi o posseggono un piccolissimo patrimonio, resteranno esclusi dagli aumenti. Anche per il Reddito di cittadinanza, l’efficienza del sistema e soprattutto la sua efficacia potranno essere misurati solo nel tempo, ma difficilmente si resterà nell’ambito della spesa prevista (6 miliardi più 1 per i Cpi), determinando o un doloroso taglio delle prestazioni o un ulteriore sforamento del deficit. Alla fine, l’approvazione del decreto segna certamente una svolta sociale per il Paese, ma restano non dissipate le incognite del ‘grande azzardo’: senza misure di sviluppo e con risultati incerti sul piano dell’occupazione, chi pagherà il conto? Ancora i giovani, gravati di un nuovo, più pesante, fardello di debito?
Francesco Riccardi
18 gennaio 2019
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/svolta-sociale-ma-chi-paga