Centinaia di casi documentati già negli anni ’70, riguardano anche i disabili e malati di mente. Per par condicio, agli indigeni di sesso maschile è elargita senza richiesta la vasectomia.
Quante voci nostrane mostrano occhi estasiati e scrivono lodi sperticate per quel ritaglio di terra che appare luminoso, accogliente e prospero come il volto del suo fascinoso presidente Justin Trudeau. Il sorriso apparente del Canada cela una voragine di umanità allo sbando, preda del nichilismo gaudente che è allettante quanto il canto delle sirene e pietrificante quanto lo sguardo di Medusa.
Droga, uteri, morte on demand
C’è qualcosa di marcio, riadattando Shakespeare, all’ombra di quei boschi incontaminati e qualcosa di molto amaro che nessun succo d’acero può camuffare.
La legalizzazione della marijuana è solo l’ultima delle cosiddette conquiste della terra ai confini con l’Artico, e un freddo di morte ben più glaciale di quello polare soffia su quei lidi: è la patria della maternità surrogata, elargita come bene di consumo a qualunque utente, etero, single, gay; altrettanto munifici si dimostrano nel donare l’eutanasia, una caramella da somministrare ai più piccoli senza neanche chiedere il permesso ai genitori.
Su questi temi si può ancora giocare alle tre carte, le mani e le parole possono fare trucchi e spacciare veleno per elisir: la droga, la dolce morte, la fabbricazione di figli a pagamento possono essere smerciati per atti benefici, salutari, pietosi. Il vaso di Pandora tracimerà rovinosamente, ma per ora tiene. Ma c’è un altro buco nero nel tessuto sociale del Canada che, tenuto in cantina per tanto tempo, sta uscendo alla luce del sole e non vedo facili vie d’uscita per salvare la faccia.
Se vuoi partorire, devi lasciare che ti chiuda le tube
“Si chiama genocidio, si chiama tortura” ha tuonato Niki Asthon lo scorso novembre rivolgendosi al Presidente Trudeau in Parlamento, portando l’attenzione sul dramma nascosto di molte donne indigene: la sterilizzazione forzata. Sembra assurdo sentire quest’espressione nell’illuminato XXI secolo, quando la maternità viene elargita urbi et orbi grazie a una medicina sempre più simile al dottor Frankenstein. Perché costringere una donna a non avere più figli? Il corpo della donna non è venerato come sacro quando si tratta di aborto? Diventa forse profanabile se vuole conservare la vocazione alla procreazione?
Si chiama selezione della razza, visto che è applicata a un gruppo etnico preciso. Gli indigeni che vivono sul territorio canadese sono sia Inuit (quelli che noi comunemente conosciamo come Eschimesi) sia nativi americani (i pellerossa, per usare un termine di facile accesso). Raccogliendo dati in rete, fondati su cronache verificate e anche studi scientifici pubblicati, emerge questa prassi neanche troppo sotterranea e aberrante: donne indigene che, recandosi in ospedale per partorire, tornano a casa sterilizzate.
Alcune raccontano di una forzatura dichiarata: al momento del travaglio l’operatore medico garantisce l’assistenza al parto solo se la partoriente acconsente a farsi chiudere le tube. Altre raccontano di moduli ingannevoli non tradotti in lingua nativa e firme estorte per procedere alla sterilizzazione. Altre ancora si rendono conto della mutilazione solo a posteriori, senza nessuna informazione.
Il movimento #metoo ha chiuso un occhio sulla vicenda? Hollywood fa notizia, altri quartieri periferici e meno fotogenici lasciamoli soli alle prese con il loro personale inferno.
A dire il vero, echi blandi di questa notizia – che meriterebbe di essere annunciata a volume alto come il colossal di Celentano – sono arrivati anche in Italia; ne ha dato notizia il Corriere lo scorso dicembre, rilanciando un appello di Amnesty International:
Dopo l’intervento, il chirurgo esclamò: “Tagliato, legato, fatto. Da lì non uscirà più niente”. La legatura delle tube come mezzo per controllare le nascite della popolazione nativa del Canada non è un ricordo del passato ma il frutto presente di pregiudizio e discriminazione secolari nei confronti delle donne indigene all’interno del sistema sanitario pubblico, un fatto ampiamente noto al governo. Fino allo scorso anno, Amnesty International ha ricevuto denunce di donne sterilizzate contro la loro volontà, ingannate da dichiarazioni mediche secondo cui la procedura sarebbe stata reversibile o addirittura costrette a rimanere separate dai loro neonati fino a quando non avessero ceduto. (da Corriere)
Altre voci denunciavano il crimine già molti anni fa, la sistematica pratica di violenza sulle madri indigene ha purtroppo lungo corso.
Oltre le donne c’è di più …
Nel 2015 il sito di bioetica Bioedge rilanciò, insieme ad altri portali di comunicazione, i contenuti del libro di Karen Stote (docente di studi femminili e nativi d’America) intitolato An Act of Genocide. Colonialism and the Sterilization of Aboriginal Women (Un genocidio in corso. Colonialismo e sterilizzazione delle donne indigene): un tuffo nell’eugenetica moderna oltreoceano. E il suo studio allarga l’orizzonte delle vittime, che sarebbero state anche persone con disabilità o deficit mentali. Una sistematica selezione della razza.
Il senso del lavoro della Stote è quello non solo tecnico di raccogliere fatti e documentare, ma di dare una cornice politica precisa a questa condotta:
Mi interessa far capire che la sterilizzazione forzata non è un atto di abuso isolato, ma una delle molte strategie politiche impiegate per danneggiare le donne indigene, per escludere gli aborigeni dalle loro terre e risorse, e per ridurre il numero di quelli verso cui il governo ha degli obblighi. Vi mostro come gli effetti della sterilizzazione degli indigeni, pianificata e non, sono in linea con la politica del passato sui Pellerossa e servono gli interessi economici e politici del Canada. (da An Act of Genocide)
Si parla di più di 300 sterilizzazioni negli anni dal 1970 al 75, per citare una delle molte tabelle presenti nel testo della Stote. A cui vanno aggiunge la vasectomie maschili eseguite al medesimo scopo; inferiori di numero ma non meno gravi nell’intento.
Giova ripetere un passaggio: “ridurre il numero di quelli verso cui il governo ha degli obblighi“. Questa frase permette di guadagnare uno sguardo d’insieme che tiene conto di capra e cavoli, di maternità surrogata e persone sterilizzate. Un popolo con una chiara identità di appartenenza è il nemico peggiore di governi di facciata democratica.
Il sogno del dittatore è crearsi a tavolino i propri sottomessi: benvenute siano – allora – la surrogazione e l’eutanasia, che sono briglie strette a cui tenere manichini d’uomini replicabili e sopprimibili; a morte i legami forti e la tradizione di chi ha millenni di storia nel sangue. Vanno fatti sparire gli uomini davvero liberi, quelli che appartengono a un popolo che chiama sacre certe consuetudini oggi risibili come la nascita, il matrimonio, la morte.
Annalisa Teggi
Aleteia, 23.1.2010