Una lettrice racconta la sua vita da 45 anni interamente dedicata all’assistenza della sua ragazza gravemente malata: «A 69 anni non merito forse una pensione?».
Gentile direttore,
sono una mamma di una persona con disabilità gravissima. Non si parla quasi mai di noi , eppure spendiamo la vita per mantenere in vita i nostri figli, forse qualcosa di più per noi ci potrebbe essere se fossimo conosciute come persone e donne con diritti come tutte le altre donne. Il mio datore di lavoro è una donna e da ben 45 anni avanza richieste sempre più pressanti e impegnative a cui io non riesco a rispondere negativamente. Vuole essere imboccata 5-6 volte al giorno per mangiare e altre 4-5 per bere per un totale di 6 ore al giorno. Vuole essere sorretta per fare qualche passo in casa con il deambulatore. Vuole, pretende, essere svegliata con il sorriso sulle labbra e con una carezza affettuosa. Vuole essere portata a spasso con la sua sedia a rotelle. Vuole la mia attenzione in ogni momento della giornata e vuole essere impegnata in qualche attività per stimolare il suo lato cognitivo molto compromesso. Vuole essere cambiata sovente, essendo incontinente convive con il pannolone. Vuole più volte nella notte essere girata nel letto per cambiare posizione. Vuole guardarmi negli occhi e trovare comprensione e sostegno. Vuole che io capisca se ha male o se ha bisogno di qualcosa senza dover profferire parola. Vuole essere accompagnata dal medico quando sta male. Vuole la mia presenza continua per l’assistenza ospedaliera quando necessita di un ricovero. Vuole che io sia la sua ombra per 365 giorni all’anno e questo avviene, da 45 anni. Sono la mamma di una persona disabile gravissima di 45 anni e il mio impegno costante è l’assistenza e la cura di questa mia creatura “speciale” a cui mai ho fatto mancare la mia presenza. Ho dimenticato cosa voglia dire dormire una notte in modo continuativo, ho dimenticato cosa voglia dire poter uscire con tutta la famiglia , non ricordo più cosa voglia dire allontanarsi di casa per più di 1 giorno massimo 2 e ogni volta con l’apprensione che chi rimane con lei riesca a cogliere il minimo accenno di malessere. Ho sostituito lo Stato per l’assistenza , ho fatto risparmiare un sacco di denaro ai contribuenti facendomi carico di molte delle funzioni spettanti ai Servizi, siano essi sanitari, educativi o assistenziali. Non crede che meriti un riconoscimento? E invece non ho riconosciuto il diritto ad alcuna pensione, neppure ora che ho abbondantemente raggiunto una bella età, 69 anni e un impegno costante paragonabile a un importante impegno lavorativo per intensità e fatica fisica e mentale oltre che affettiva. “Quota 100” per me è una grande presa in giro per quanto mi riguarda… Ho svolto, svolgo, un lavoro usurante sul piano fisico, mentale, psicologico e morale. Forse potrei essere insignita di titolo di Cavaliere del Lavoro per essere stata fedele per 45 anni allo stesso “datore di lavoro”, perché di questo si tratta, oltre a essere madre sono infermiera e medico, pur non avendone i titoli, persino la diagnosi della sua malattia è stata individuata da me. Sono insegnante, assistente, badante, con una sola differenza con gli altri lavoratori che non sono stata mai stipendiata, anzi. Ho dovuto scegliere se tornare al lavoro e ricoverare mia figlia in un istituto o assisterla personalmente. Ho scelto la via più impegnativa e non me ne pento, ma vorrei che il mio impegno fosse riconosciuto pubblicamente non fosse altro che per far conoscere agli italiani le profonde, sentite, silenziose vite di tante donne che purtroppo ancora oggi sono ignorate: le mamme di persone con disabilità grave e gravissima. Marina Cometto
Cara signora Marina, provo a risponderle su incarico del direttore. Il suo lucido e insieme struggente racconto fa emergere ancora una volta due tra gli errori di valutazione più importanti della nostra società. Il primo è quello di non considerare la cura, l’assistenza e l’educazione di un familiare come un “lavoro” o un impegno a cui dare un giusto riconoscimento. Il secondo è continuare a pensare i figli solo come un fatto “privato” della singola famiglia. Una concezione individualista che non considera come noi siamo in realtà membra di un unico corpo sociale, né la fondamentale importanza che il capitale umano riveste per ogni Paese. E dunque come ogni famiglia riesca a far crescere, ad assistere ed educare un bambino o un figlio con difficoltà, è qualcosa che riguarda tutti noi come comunità e deve interessare lo Stato per le sue competenze. Se poi proviamo a pensare a che cosa sia il lavoro nella sua essenza, quali siano le sue funzioni principali, possiamo facilmente comprendere come la cura sia certamente un’attività da riconoscere. Mi vengono in mente tre parole: dignità, identità e relazione. Il lavoro dà dignità all’uomo, perché è il modo con cui “(ri)paghiamo” il nostro stare al mondo, attraverso la nostra capacità di agire in esso e di trasformarlo. È identità perché quando impegniamo profondamente noi stessi, quell’attività finisce per caratterizzarci, tanto che diciamo “sono” un medico, una insegnante o un falegname e non semplicemente “faccio” il medico, l’insegnante o il falegname. È relazione perché il lavoro rappresenta l’ambito privilegiato dei nostri rapporti di confronto e scambio con le altre persone e il mondo esterno. Ovviamente è il mezzo con il quale guadagniamo il necessario per vivere, ma più ancora il lavoro è lo strumento con il quale cerchiamo di realizzare noi stessi, quel che portiamo dentro, e partecipiamo alla costruzione di un bene comune. Ma se il lavoro è essenzialmente tutto questo, il “prendersi cura” di un figlio, specie se in condizione di fragilità, non solo è un lavoro, forse è il lavoro che merita certamente più di altri un compenso monetario e più ancora un riconoscimento sociale degni. Già negli anni scorsi si è tentato di introdurre norme per favorire il pensionamento anticipato di coloro che si prendono cura di familiari non autosufficienti. Ma più che pensare sempre alla quiescenza, alle quote 100 e dintorni, bisognerebbe progettare interventi più strutturali e che sostengano chi assiste figli disabili lungo tutto l’arco della loro vita. In questi giorni, ad esempio, sta per debuttare il nuovo Reddito di cittadinanza, e allora perché non provare ad assicurare tale sussidio minimo a chi si prende cura di un familiare disabile? Almeno questo sussidio, almeno un riconoscimento minimo. Cara signora Marina, il racconto delle sue giornate e nottate, interamente dedicate a sua figlia, sono per prima cosa una prova di come si ama davvero: sempre, comunque, con tutto sé stesso. E certo non c’è stipendio che possa ripagare l’amore profuso, non è quantificabile un’equa remunerazione. Conosco personalmente esempi di una simile dedizione che sono per me testimonianze preziose di umanità e di fede, di una santità concreta, vissuta nel quotidiano. Anche nella prospettiva di uno Stato laico, però, sarebbe quanto mai giusto e opportuno riconoscere come una tale umanità rappresenti un bene offerto a tutti, un vantaggio per l’intera società, non qualcosa di semplicemente “privato”, per quanto spesso nascosto nella modestia di tanti nuclei familiari. E di questo prezioso dono dovremmo essere anzitutto grati. Grazie, signora Marina.
Francesco Riccardi
5 marzo 2019
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/assisto-h24-una-figlia-disabile-quel-riconoscimento-che-manca