Il 6 aprile 1994 ebbe inizio un conflitto in Ruanda che, nel giro di un centinaio di giorni, portò alla morte un milione di persone. Si trattò di un vero e proprio genocidio, ancora oggi poco conosciuto sebbene sia stato portato sul grande schermo da un film notevole come Hotel Rwanda (che racconta la vicenda di Paul Rusesabagina, ex direttore d’albergo che mise in salvo 1268 hutu e tutsi). A venticinque anni da quegli episodi, pubblichiamo un estratto del libro Santi e demoni d’Africa, scritto dall’inviato di Tempi Rodolfo Casadei, che raccoglie alcune strazianti storie delle vittime del genocidio del 1994 nel paese africano. Qui potete leggere la storia del pellegrinaggio a Kibeho, la “Lourdes del Ruanda”.
Quando saranno conosciute tutte le storie dei cristiani del Ruanda nei giorni del genocidio del 1994, la Chiesa cattolica dovrà probabilmente riscrivere il calendario dei santi per far posto ai martiri e ai testimoni eroici della fede ruandesi. Si è scritto e si è letto molto sulle colpe della Chiesa del Ruanda, gerarchia e fedeli; ci si è scandalizzati per il coinvolgimento diretto di elementi del laicato e del clero nelle violenze più atroci. Effettivamente i tradimenti ci sono stati, e pure numerosi: dalla bocca di adulti e bambini, di missionari e sacerdoti locali ho ascoltato storie mortificanti di infedeltà infami. Ma accanto a questo volto tenebroso la storia dei giorni recenti presenta anche lati luminosissimi come quello dei “giusti”, in gran parte cristiani, che si sono adoperati per salvare gente dell’altra etnia a rischio della propria vita. E ancora più sconvolgenti sono le storie di battezzati che hanno dato prova di virtù eroiche nel momento supremo della morte. Viene in mente un’espressione di san Paolo nella lettera ai Romani: «laddove è abbandonato il peccato, ha sovrabbondato la Grazia». In pochi giorni di viaggio in Ruanda ho ascoltato numerosissimi racconti che portano questo sigillo.
Padre Willy Redoble, giovane rogazionista filippino della parrocchia di Mugombwa (diocesi di Butare) riparato per motivi di sicurezza a Nyanza, mi narra un episodio riferito dal parroco di Musha (arcidiocesi di Kigali), il croato Danko Litric. All’interno della sua chiesa e dei locali parrocchiali si è compiuto uno dei più efferati massacri della guerra: 1.170 uomini, donne e bambini trucidati dagli interahamwé e dalla guardia presidenziale. Le vittime sono rimaste assediate per lungo tempo prima dell’eccidio finale, condannate a una sorta di straziante agonia. Nei giorni immediatamente precedenti all’assalto decisivo padre Danko ha notato una mattina un gruppo di giovani donne che avevano indossato gli abiti della festa. Si è avvicinato e ha chiesto la ragione di quell’abbigliamento: «Perché vestite così? Oggi non è domenica». «E’ vero, non è domenica – ha risposto una di loro con un sorriso estatico -, ma è festa lo stesso: oggi andiamo a incontrare il nostro Signore».
La stessa idea si trova espressa in molte lettere di “condannati a morte”, fortunosamente pervenute a parenti e amici dai luoghi dove costoro erano reclusi. Rannicchiata su un divano, eppure solenne nella sua malinconia, Godelive Mukanguranga, splendida infermiera tutsi che torna nel suo paese dopo sette anni trascorsi in Italia, mi legge un passo di una lettera di sua sorella. Le è arrivata quando già sorella, madre e un fratello, asserragliati per lungo tempo nei locali del politecnico di Kigali con centinaia di altre persone, erano stati trucidati. «Non preoccupatevi – dice la lettera – il morale è alto. Ci stiamo preparando ad andare in un luogo dove tutto è pace. Pregate perché Dio ci accolga». La stessa serenità sovrumana di fronte alla morte, così imponente da sconfinare nell’esaltazione, emerge dall’eccitato racconto fatto da una suora benebikkira (una congregazione locale) di un massacro si insegnanti. Non capisco bene il nome della località, che si trova nella prefettura di Butare, ma il racconto della suora, interrotto continuamente da risate nevrotiche, parla di persone che si dirigono verso i carnefici in fila indiana e a mani giunte, cantando le lodi del Signore come se si trattasse di una processione eucaristica. Gli assassini fanno sdraiare gli sventurati man mano che arrivano di fronte a loro e li uccidono a colpi di mazza e di machete. Gli inni si spengono a poco a poco mentre i boia compiono il loro lavoro, finché scende il silenzio. Sembra un racconto delle persecuzioni dei primi cristiani, e invece sono cose di qualche mese fa.
In un’altra località della prefettura di Butare due giovani tutsi anziché fuggire raggiungono la chiesa locale affollata di rifugiati in attesa di morte certa. A una suora sbalordita che li fissa dicono: «Siamo innocenti, non abbiamo ucciso nessuno: qui moriremo con la coscienza tranquilla». L’abbé Pierre Simons, missionario fidei donum di Liegi sfollato coi suoi ragazzi handicappati a Gatagara dopo un’incredibile odissea, racconta la vicenda terribile e commovente di Gilbert e dei suoi fratelli. «Erano sette ragazzini: 5 anni il più piccolo, 17 il più grande, che si chiamava Gilbert. Come decine di altre persone avevano cercato rifugio presso il mio centro a Cyotamakara. Dei loro genitori, noti oppositori, non avevano notizie, ma probabilmente erano già stati uccisi. Un giorno un ufficiale dell’esercito mi ha voluto vedere in privato. “Sanno che i sette fratelli sono da te – mi ha confidato -. Verranno a prenderli e sono pronti a tutto: se cerchi di difenderli ne farai le spese tu e gli altri tuoi ragazzi”. Sono tornato al centro annichilito, ho chiamato Gilbert e gli ho illustrato la situazione: “Fuggite, il confine col Burundi non è lontano”. E’ rimasto in silenzio per qualche minuto, poi ha replicato con decisione: “No, padre: non fuggiremo. Ogni cento metri c’è una barriera di interahamwé ed è quasi certo che i nostri genitori sono morti. Siamo stanchi di essere braccati: quando verranno, ci consegneremo. Non preoccupatevi, non metteremo in pericolo nessuno di voi”. Nei due giorni seguenti è rimasto tranquillo. Il giorno della festa di Pentecoste sono arrivati in una sessantina, accompagnati da due militari. Gilbert li ha visti prima di me ed è andato subito loro incontro, poi hanno riunito tutti i fratelli. Sicuramente Gilbert li aveva preparati, perché nessuno di loro ha cercato di nascondersi e nemmeno hanno pianto o gridato. Il più piccolo era a letto malato: lo hanno preso e caricato di peso sulla camionetta. So che durante il viaggio Gilbert ha fatto un ultimo tentativo per salvarsi offrendo del denaro, ma non è servito: li hanno portati a Nyanza e là li hanno uccisi».
«Un episodio simile – racconta ancora padre Simons – si è ripetuto con un altro giovane che era nascosto da noi, un certo Jean-Paul. Erano venuti a cercarlo, ma non lo trovavano. Stavano diventando molto nervosi e minacciavano di uccidere i ragazzi che giuravano di non conoscere il suo nascondiglio. Quando la tensione si è fatta insopportabile, Jean-Paul è spuntato dal nulla dicendo semplicemente: “Eccomi”. Prima di seguirli ha voluto leggere ad alta voce un passo del Nuovo Testamento. Non mi chieda quale, ero talmente confuso …». Fra i tanti che hanno fatto della loro morte un sacrificio consapevole c’è anche chi ha cercato di risvegliare l’umanità dei carnefici, di praticare il comandamento cristiano della correzione fraterna. Padre Henri Blanchard, un padre bianco francese che ha vissuto una terribile odissea nel quartiere di Nyamirambo a Kigali, mi racconta la vicenda di Jean-Marie Vianney Giakumba, capocatechista in una comunità cristiana alla periferia di Kigali, di etnia hutu. Per la sua opposizione dichiarata alle violenze contro i tutsi gli era stata distrutta la casa e aveva dovuto cercare riparo in un altro quartiere. Saputo che alla testa della banda di assassini che imperversava nella sua zona c’era proprio uno dei suoi catechisti, si è recato senza esitare al loro quartier generale e ha messo il fratello nella fede di fronte alle sue tremende responsabilità.
Ma costui non si è sentito nemmeno scalfito da quel richiamo severo e accorato: ha ordinato ai suoi di trascinare via Jean-Marie e di sopprimerlo. Giunto al luogo del supplizio, il capocatechista ha preso per l’ultima volta la parola: «Speravo di vivere più a lungo, ma morendo giovane sono felice di morire a 33 anni, che è l’età di Nostro Signore. A voi che prendete la mia vita affido la mia famiglia». Quindi ha voluto leggere un passo delle Scritture e ha recitato una preghiera. Il suo cadavere è stato gettato nel fiume Nyabarongo. Quanti Gilbert, quanti Jean-Paul, quanti Jean-Marie Vianney, quante donne come quelle di Musha e del politecnico di Kigali hanno illuminato la cupa notte del Ruanda? Solo Dio lo sa, solo Lui può averne tenuto il conto.
Rodolfo Casadei
4 aprile 2019
I testimoni eroici della fede in Ruanda, a 25 anni dal genocidio