C’era una volta il giornalismo come dovrebbe essere: corretto, neutrale e, soprattutto, equidistante. Capace cioè di dare conto di tutte le opinioni, tanto più laddove un argomento risulta delicato e scottante. Si tratta, come poc’anzi detto, del giornalismo di una volta, oggi pressoché estinto. O almeno questo viene da pensare quando si apprende che lo scorso mercoledì 4 aprile, a Perugia – in seno all’International Journalism Festival, tenutosi nella città capoluogo dell’Umbria dal 3 al 7 di questo mese – si è tenuto l’incontro La transessualità spiegata ai bambini (e non solo), moderato dal giornalista di Repubblica Pasquale Quaranta e come relatore Vladimir Luxuria.
Non occorre infatti essere particolarmente bigotti o nostalgici dei tempi andati per comprendere come La transessualità spiegata ai bambini ponga, come tema, tutta una serie di interrogativi. Per esempio: è giusto che la transessualità sia spiegata ai bambini? E per quale motivo dovrebbe esserlo? E soprattutto: è corretto che un argomento del genere sia affrontato da un solo relatore tutto fuorché neutrale come Luxuria? Tutti interrogativi che gli organizzatori dell’International Journalism Festival non sembrano assolutamente essersi posti. Altrimenti non avrebbero presentato l’incontro con il noto attivista Lgbt in questi termini: «Il discorso destinato ai più “piccoli” diventa così una “lezione” di democrazia per i giornalisti chiamati a una rappresentazione corretta di questa realtà nel superiore interesse dei lettori a ricevere un’informazione corretta sui temi lgbt». Parole, queste, che lasciano davvero basiti.
Come si può infatti parlare di «rappresentazione corretta di questa realtà nel superiore interesse dei lettori a ricevere un’informazione corretta sui temi lgbt» quando si invita, come relatore, solo qualcuno di parte quale inevitabilmente è – comunque la si pensi – uno come Vladimir Luxuria? È evidente come non solo gli organizzatori dell’International Journalism Festival ma un po’ tutto il mondo del giornalismo, oggi, abbia dei problemi a rapportarsi in modo equilibrato e non militante con i temi etici.
Ed è un peccato sia così, dal momento che ne va non solo della credibilità di una professione sotto questo punto di vista purtroppo già in crisi, ma pure del diritto dei cittadini a essere informati in modo equidistante. Ma che equidistanza può esserci nel momento in cui, lo si ripete, su un tema delicatissimo viene interpellata una sola voce? Evidentemente nessuna. Il che è grave, oltre che per le motivazioni poc’anzi esposte, anche per il fondamentale e prioritario diritto dei bambini a essere accolti, cresciuti ed educati per quello che sono: maschi e femmine. Punto.
Vale la pena tenere a mente quest’ultimo aspetto perché i ricercatori del calibro di Lawrence S. Mayer – Paul R. McHugh, dopo aver revisionato 500 articoli scientifici, hanno concluso che «gli studi scientifici non supportano l’ipotesi che l’identità di genere sia una proprietà innata e umana fissa e indipendente dal sesso biologico, cioè che una persona è “un uomo intrappolato nel corpo di una donna” o “una donna è intrappolata nel corpo di un uomo”, come se ci fosse un errore nel suo corpo e nei suoi genitali», con la conseguenza che «non ha alcun supporto scientifico l’idea che un bambino di due anni, che ha espresso pensieri o comportamenti che sono identificati con il sesso opposto, possa essere bollato per la vita come transgender». Chissà se questo è stato messo in chiaro, al festival giornalistico di Perugia. Viene da dubitarne.
Giuliano Guzzo
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