Bergamo. L’ex campo di concentramento diventato laboratorio di lavoro

By 7 Maggio 2019Testimoni

Da simbolo di sofferenza a luogo di condivisione: il ‘lager alla Grumellina’ di Bergamo riconvertito in spazi per aziende artigiane e posti di ritrovo. Il racconto di chi ha avviato l’iniziativa.

È un mattino d’inverno di sei anni fa. Stefano Martinelli percorre la via per Grumello, che da Bergamo porta verso Dalmine. Passa davanti al numero 61 e vede spuntare tra la nebbia le sagome severe di alcuni vecchi capannoni. «Che strano, non ci avevo mai fatto caso». Arriva alla rotonda e torna indietro: la curiosità è troppo forte. «Stavo cercando uno spazio mio, dove aprire un’officina per restaurare vecchie moto. Appena varcato il cancello, ho capito che ero arrivato nel posto giusto». Nel piazzale vede aggirarsi un vecchietto: è il proprietario, che gli apre le porte di un magazzino.

«Dentro non c’era nulla, solo tanta polvere e questo» spiega Martinelli, indicando un quadro appeso alla parete. Il dipinto raffigura una cella da cui filtra un po’ di luce e una scritta: ‘Punto di fuga’. «È stata un’illuminazione, perché avevo già pronto il nome del locale che avevo in mente: officina di giorno, punto di ritrovo la sera». Ma Martinelli in quel momento non sa ancora che quel quadro rimanda al passato doloroso del luogo. In via Grumello 61, durante la seconda guerra mondiale, sorgeva un grande campo di prigionia. I fascisti ci portavano i soldati nemici catturati durante le campagne nei Balcani e in Nordafrica. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 passò nelle mani dei nazisti, che vi rinchiusero anche gli italiani che si erano ribellati al regime. «La storia l’ho scoperta al bar, qualche tempo dopo – sorride Martinelli -. Mentre bevevo un caffè mi hanno spiegato cos’era il campo di concentramento P.G. 62.

Allora ho cominciato a studiare. E ho scoperto tante cose. Ad esempio che proprio qui dormivano i tedeschi, sotto c’erano i prigionieri. Ora è bello pensare che un luogo di sofferenza e divisione è diventato un luogo di svago. Punto di fuga, appunto. Qui viene ogni tipo di gente: studenti, operai, magistrati. Quando ballano sono tutti uguali, si divertono tutti allo stesso modo». L’iniziativa di Martinelli è la scintilla che riaccende la luce alla fine del tunnel di un passato ingombrante. Dopo di lui iniziano ad arrivare altri giovani imprenditori, attratti dal magnetismo del luogo. Gli alti soffitti e i muri fatiscenti racchiudono un vuoto che sembra fatto apposta per far rimbalzare le idee e scatenare l’istinto creativo.

Così iniziano a spuntare studi professionali e botteghe artigianali. C’è chi progetta gli arredi degli yacht, chi apre uno studio fotografico, chi restaura biciclette. Non manca nemmeno il fabbro che lavora il ferro come una volta. Dopo decenni di oblio il campo di concentramento respira aria nuova. Il vecchio proprietario non amava la pubblicità e finora nessuna istituzione ha mai sentito il bisogno di spolverare gli ingombranti ricordi. Solo l’Anpi ha tenuto viva la memoria: Giorgio Marcandelli, segretario della sezione di Dalmine, nel 2010 ha scritto insieme ad altri tre autori il libro The Tower of silence (Sestante), che raccoglie le vicende del campo e dell’umanità dolente che vi è transitata. Alcuni giorni fa, in vista del 25 aprile, i giovani imprenditori hanno organizzato una sorta di open day proprio per far conoscere ai bergamaschi l’esistenza del luogo.

Molti ne avevano sentito parlare vagamente, tantissimi ne ignoravano la presenza. Chi ha speso un’ora per una visita non è rimasto deluso: in mezzo ai locali restaurati ha potuto leggere testimonianze, scrutare foto d’epoca, ascoltare la voce di chi c’era. Come quella di Albino Previtali, 94 anni. Assediato dai ragazzi delle scuole, che lo fotografavano con lo smartphone, ha raccontato di quando lui e gli altri partigiani arrivarono al campo l’8 settembre. «I soldati del Duce ci consegnarono armi e uniformi. Poi noi aiutammo alcuni prigionieri a scappare prima dell’arrivo dei tedeschi: li portammo sulle montagne. Eh, sono stati tempi duri: se ti beccavano ti ammazzavano». Previtali si è guardato intorno, incredulo di vedere un’invasione di scrivanie, grandi schermi, poltrone e soppalchi. Tutto è cambiato all’interno di questi edifici: il piccolo ma ardimentoso esercito di creativi ha spazzato via l’aria cupa in cui troppo a lungo sono rimasti immersi. «Questo posto ha un passato pesante, ma nasconde un’energia pazzesca – dicono le designer Silvia Capelli e Arianna Bianchi, che hanno aperto bottega nella palazzina dell’ex comando – Era uno spazio abbandonato, lo abbiamo restaurato sfruttandone l’enorme potenziale ».

Lorenzo Sommariva, titolare dello studio di comunicazione allestito nelle vecchie cucine, si inorgoglisce quando fa notare che lui e gli altri hanno «tirato fuori storie da ogni pietra. La memoria è un grande patrimonio anche per il mercato: la gente non chiede solo prodotti, ma valori ed esperienze ». L’open day è stato solo l’inizio. Lo sguardo è già al futuro. «L’ambizione è affermarsi come polo artigianale d’eccellenza – conclude il baristamotociclista Martinelli – dove poter valorizzare e rilanciare gli antichi mestieri». Mentre lo dice guarda fuori dal locale. Scorge una fiammante Harley Davidson parcheggiata e gli scappa un sorriso. In quel piazzale, 70 anni fa, incombevano i panzer con la svastica.

Marco Birolini

21 aprile 2019

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