Un fratellino, i ragazzi del popolo, i fuorilegge dello ius vitae, i giganti della carità. La sponda umana che la protervia dello Stato inglese non è riuscita a sopprimere.
È passato un anno dalla morte di Alfie Evans. Un anno dall’ennesima irruzione dell’eutanasia nella prassi medica e giuridica inglese, ma anche un anno da quel clamoroso atto di ribellione tentato da due giovanissimi ragazzi del popolo per salvare un figlio dall’accanimento tanatologico dei tribunali e dalla fine iscritta nella subdola favoletta del “best interest” del malato. Cosa resta della battaglia degli Evans, dei protagonisti della storia di Alfie e di quell’assalto di domande che hanno indotto o costretto tanti a chiedersi cos’è un uomo e quanto vale?
THOMAS, KATE E TOM
Thomas James Evans è nato il 6 agosto, quattro mesi dopo la morte di suo fratello Alfie. Kate, la sua mamma ventenne, se lo portava in pancia silenziosamente proprio nei giorni in cui il contenzioso legale con l’ospedale Alder Hey di Liverpool era alle battute finali, mentre veniva espropriata del diritto/dovere di salvare Alfie, mentre osservava impotente l’ultimo fragile respiro del suo primogenito, privato di ossigeno, idratazione e nutrizione farsi strada per oltre cento ore senza l’ausilio del ventilatore artificiale. Thomas non ha ereditato la misteriosa malattia di Alfie, gli somiglia un sacco, «non fa che sorridere» ha raccontato pochi giorni fa il papà Tom col il secondogenito in braccio al Goodison Park, prima della partita dell’Everton contro l’Arsenal, applaudito da 39.400 persone.
«Thomas ha salvato la nostra vita. Non potrei nemmeno alzarmi al mattino senza la sua presenza. Dove sarei senza di lui?». Tom dice che spesso Kate piange. Ricorda ogni giorno l’ultima terribile notte di Alfie, l’interminabile respirazione bocca a bocca praticata da Tom al bambino davanti alle infermiere e ai poliziotti che piantonavano la stanza immobili: «Smettila, gli stai solo gonfiando il ventre», gli aveva detto Kate. Lei che tanto piccola si era portata sul petto quel bimbo avvolto di tubetti per mesi, e che col suo «umorismo bizzarro e delizioso, totalmente privo di vanità e di presunzione» aveva colpito perfino il giudice Hayden in visita all’Alder Hey Children’s Hospital, lo stesso giudice che avrebbe poi stabilito che morire era nel massimo interesse di Alfie. Kate – che nonostante uomini in camice e con la toga le ricordassero che era in preda agli ormoni di una nuova gravidanza e che lei e il marito, una estetista e un imbianchino, erano «egoisti e ignoranti» – con la sua maternità giovane, luminosa, sorridente ha permesso fino all’ultimo a un figlio di restare un avvenimento e non un programma difettoso da terminare.
GLI HOOLIGANS
Tom era stravolto e malnutrito quel giorno di novembre che chiamò per nome, arrampicato su una ringhiera, Bill Kenwright, presidente dell’Everton, la sua amatissima squadra, la sua seconda casa. «Non voleva nulla da me, voleva solo che tutti sapessero del suo ragazzo e cosa stesse passando». Kenwright non sapeva nulla della famiglia Evans, ma sapeva questo degli evertoniani «che sono leali, sono risoluti e, per Dio, si prendono cura dell’Everton fino alla fine dei loro giorni». E aveva deciso di aiutarlo. I genitori di Alfie ricevettero una donazione dal presidente a fine febbraio, quando il destino di loro figlio era ancora appeso al verdetto dell’Alta Corte di Londra.
Fu una miccia: Kenwright accese una gara di solidarietà tra tifosi che consentì in fretta agli Evans di raccogliere diecimila sterline (quasi 14 mila euro) per sostenere la loro battaglia. Una battaglia che era diventata anche quella degli evertoniani, incolti hooligans che mentre la stampa si metteva al seguito dei medici, dei giudici, dei vescovi inglesi in ostinate diatribe sulla qualità della vita e la dignità della morte, non hanno mai smesso di capire, esattamente come andava capita, la questione di Alfie, null’altro che una questione di vita o morte.
L’ESERCITO DI ALFIE
La notte del 12 aprile, a poche ore dall’”esecuzione” fissata dall’Alta Corte di Londra, la stessa in cui Tom e Kate – passaporti in tasca, parere legale del Christian Legal Center, équipe medica polacca ed eliambulanza pronta a partire probabilmente per l’Italia – cercarono inutilmente di esercitare il proprio diritto genitoriale, revocando formalmente il dovere di cura all’Alder Hey e trasferendolo ai nuovi medici, centinaia e centinaia di persone si sono radunate fuori dall’ospedale per chiedere la “liberazione” di Alfie. Una sommossa e un tentativo sedato da un surreale spiegamento di forze dell’ordine che iniziarono a piantonare l’ospedale e la camera del piccolo in formazione antiterroristica impedendone il rilascio.
Ma come per il piccolo Charlie Gard, attorno ad Alfie si era ormai radunata una intera società, con la sua miopia, la sua confusione, il suo buon cuore, la sua generosità lasciata allo sbando, con quelle domande sul valore dell’esistenza portate come fieno tra le braccia verso il suo lettino. I soldi raccolti dal fracasso generato dalla pagina social Alfie’s Army, da quelle persone che disgustano i sofisti nostrani, serviranno ora ad aiutare altri bambini malati. Sono 140.000 sterline, sedie a rotelle e attrezzature “sensoriali” sono già state donate dalla famiglia ad associazioni di disabili. E, come dopo la morte di Charlie Gard, è stata annunciata la nascita di una Fondazione.
IL BAMBINO GESÙ
Più volte il Bambino Gesù di Roma, così come l’Ospedale Gaslini di Genova e l’Ospedale universitario di Monaco, e così come aveva già fatto per Charlie Gard, aveva dato la disponibilità ad accogliere Alfie per prendersene cura, senza accanimento terapeutico, senza procurare l’esito finale e fatale della sua esistenza. Ma nonostante gli appelli di papa Francesco, i numerosi solleciti della presidente Mariella Enoc a un’alleanza con l’ospedale inglese, garantendo aiuto anche per il trasporto aereo e la presa in carico totale dei costi di Alfie, nonché la disponibilità a recarsi personalmente e con i suoi collaboratori a Liverpool, erano caduti nel vuoto. Davanti al silenzio e alla sordità inglese non era restato ad Enoc che raggiungere personalmente l’Alder Hey. Dove non ha potuto portare a casa Alfie – «Sento tutta la mia impotenza. L’ospedale sa che sono qui ma mi hanno detto che non mi vogliono ricevere», disse a Tv2000 -, ma ha potuto portare in Inghilterra la più efficace testimonianza dell’eccellenza della cura cristiana.
Così laica e ancorata alla realtà da rispettare il suo compito fino alla fine. Ha acceso una miccia di coscienza – mentre venivano battute tutte le strade per impedire il distacco dei supporti vitali, dalle manifestazioni ai ricorsi giudiziari, dalle denunce alle dirette Facebook, fino alla consegna della cittadinanza italiana ad Alfie Evans – dimostrando che è proprio nel momento in cui alcuni medici stabiliscono che non c’è più nulla da fare e non hanno più da perder tempo con un paziente, che per altri medici è invece possibile fare moltissimo e andare incontro al paziente. Oggi Il Bambino Gesù compie 150 anni di storia e continua a rispondere in tutto il mondo al bisogno di sponde umane dei piccoli malati e delle loro famiglie.
IL GIUDICE HAYDEN
Per decretare più volte e per sentenza il decesso di Alfie, il giudice dell’Alta Corte inglese sir Anthony Paul Hayden ha strumentalizzato una frase di papa Francesco sul fine vita, bollato come «provocatorio e inappropriato» il parere contrario a quello dell’Alder Hey espresso con forza dal Dr. Haas di Monaco, uno dei medici consulenti nel contenzioso su Alfie, negato quello che non era accanimento terapeutico ma mantenimento vitale a un bambino di nemmeno due anni, evocato la morte come «interesse superiore del bambino», definito «futile» la sua vita, «deprecabili» le manifestazioni di supporto agli Evans, «inopportuni» i video del piccolo che i genitori hanno cercato di mostrare in udienza, lamentandosi del fatto che i filmati «violano la privacy di Alfie».
Noto attivista per i diritti lgbt (ha scritto il libro Children and Same Sex Families) e autore di altre sentenze sul distacco dei supporti vitali, il nome di Hayden è tornato sotto i riflettori poche settimane fa: pronunciandosi sul caso sollevato dalla Court of Protection del Regno Unito a proposito di una donna che a causa dell’aggravarsi di problemi mentali non può più essere considerata consenziente ai rapporti sessuali pretesi dal marito, ha detto: «Non riesco a pensare a un diritto più ovviamente fondamentale di quello di un uomo che voglia fare sesso con la propria moglie». Ovviamente “il sesso come diritto umano fondamentale” ha scosso più coscienze della “morte come migliore interesse di un bambino malato”.
LA GUIDA INGLESE PER EVITARE I CASI ALFIE
La nuovissima guida del Royal College of Pediatrics and Child Health (Rcpch) punta a evitare casi come quelli di Charlie Gard o Alfie Evans, intendendo per “casi” le situazioni di intenso disaccordo tra medici e famiglia che hanno attirato l’attenzione internazionale e commenti da parte del Papa o di Donald Trump. Invita pertanto i genitori di bambini malati a non condividere le storie dei loro figli sui social media e i medici a non dare aspettative irrealistiche sul futuro di questi bambini. Auspica l’intervento di un “aiuto esterno”, psicosociale, medico, etico e legale, quando i disaccordi crescono, e per aiutare madri a padri a comprendere l’impatto che può avere sulla loro vita personale pubblicare aggiornamenti online e coinvolgere i media.
Quattro ospedali del Regno Unito stanno attualmente sperimentando un protocollo per la gestione dei conflitti, che mira a ridurre il numero di disaccordi che si aggravano tra il personale ospedaliero e le famiglie. Un passo avanti per aiutare le famiglie o sbrigare le pratiche in modo indolore? Alfie non è stato ucciso da una malattia, ma da una sentenza. E quanto è costata al sistema sanitario inglese la sua morte? Solo pochi mesi fa numerosi giornali inglesi hanno titolato a proposito della battaglie legali per Charlie Gard e Alfie Evans: «Sono costate 500.000 sterline ai contribuenti», «i trust degli ospedali del servizio sanitario nazionale affermano di aver speso più di 420.000 sterline per gli avvocati», «poco meno di 50.000 sterline il Cafcass» (l’organizzazione finanziata dai contribuenti che rappresenta gli interessi dei minori coinvolti in cause giudiziarie in famiglia).
LE DOMANDE
Ancora una volta ci chiediamo: quanto costano le vite degli Alfie Evans? Come è possibile, nell’era dei diritti e delle infinite possibilità, che una morte al prezzo della vita sia più accettabile e sostenibile della vita stessa? Perché di fronte a qualcuno che accetta di farsi carico di costi e cure delle vite “futili”, davanti alla disponibilità di chi vuole prendersi cura della zona grigia dell’esistenza, la risposta è sempre la rinuncia, la morte indotta, l’annichilimento del desiderio di “cum patire” fino alla fine? A un anno dalla morte di Alfie, oggi che un’altra legge ha condannato alla stessa morte orribile un altro malato, Vincent Lambert, restano le domande. Quelle portate da due ragazzi del popolo, due “ignoranti” fuorilegge, ultimi avventurieri della modernità pronti a giocare la propria vita per il mistero di quella dei figli.
Dall’improvvisazione di altri fuorilegge, madri, padri, famiglie, hooligans, utenti social, che col loro fracasso e preghiere per lo ius vitae hanno conficcato nella cronaca e nella coscienza di altri medici, altri ospedali, altri paesi la storia, così già ben scritta dalla legge inglese, di Alfie Evans. Dalla testimonianza di un ospedale che come un gigante della carità continua a insegnare a una società orgogliosa cos’è la più piccola delle esistenze temporalmente segnate, e quanto infinitamente vale. Nonostante la protervia e l’ossessione per la privacy dello Stato totalitario inglese e dei giudici la morte di Alfie ha riscosso – e continuerà a riscuotere – una domanda di vera sponda umana, una battaglia per la vita.
Caterina Giojelli
28 aprile 2019
A un anno dalla morte, non c’è storia più viva di quella di Alfie Evans