La scorsa settimana riflettendo sul “temine vita” abbiamo affermato che quando al malato terminale si offrono un’autentica vicinanza e un valido supporto terapeutico, l’eventuale richiesta di eutanasia scompare. Questo supporto terapeutico si chiama “Cure Palliative” che purtroppo nel nostro Paese sono poco conosciute non solo dalla popolazione ma anche da parecchi medici di famiglia. Per questo vogliamo approfondire l’argomento.
Le “Cure Palliative” sono così descritte dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità. “E’ il prendersi cura attivo e globale del paziente la cui malattia non è più responsiva alle terapie specifiche. Sono il controllo del dolore e degli altri sintomi, unitamente all’attenzione ai problemi psicologici, sociali e spirituali”.
Il vocabolo “palliativo” ha origine dal termine latino “pallium” che indicava il mantello di lana indossato dai pastori. Per comprenderne pienamente il significato dobbiamo riferirci a san Martino di Tours, vescovo del IV secolo, che trovandosi di fronte ad un povero tremante per il freddo e non avendo nulla da offrirgli, tagliò in due, con la spada, il mantello che indossava, donandone la metà all’indigente. Metaforicamente l’episodio suggerisce gli obiettivi delle Cure Palliative. Il santo, pur non avendo eliminato la causa della sofferenza, cioè la povertà, coprendo quell’uomo lo ha protetto e ha contribuito a mitigare il suo disagio. Anche le Cure Palliative, non rimuovono la patologia, cioè la causa della situazione di dolore e di disagio, ma leniscono efficacemente le sofferenze; curano la persona nella sua totalità unificata; offrono al malato una terapia globale; lo difendono dallo scoraggiamento, dall’isolamento, dalla chiusura in se stesso affinché attenda serenamente il naturale decorso della malattia. Dunque, questa prassi assistenziale, insegna che il malato in fase terminale non è un “ormai morto”, ma una persona che sta percorrendo un tratto rilevante della vita.
Le Cura Palliative furono ideate in Inghilterra negli anni ’50 del XX secolo con la costituzione degli hospices, dove operavano équipe composte di medici, psicologi, infermieri, religiosi e volontari. Il sostegno era prestato anche ai familiari chiamati a svolgere una funzione rilevante nel processo di cura totale e globale. In Italia, le prime esperienze di hospices, risalgono agli anni ’80 del XX secolo, essendo gli ospedali impreparati a curare adeguatamente i morenti e i medici insufficientemente addestrati nel settore. Attualmente, nel nostro Paese, le Cure Palliative sono regolate dalla legge 38/2010: “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia
del dolore”. Il provvedimento legislativo afferma che ogni cittadino ha il diritto ad accedere alle cure palliative e alle terapie del dolore che dovranno essere garantite nella continuità assistenziale dalla struttura ospedaliera, dagli hospices o a domicilio.
Le Cure Palliative, dunque, non anticipano né posticipano la morte, ma unicamente alleviano il dolore, costituiscono un valido strumento anche nei confronti dei sostenitori dell’eutanasia, essendo un accompagnamento attivo della vita per offrirgli il massimo significato, compatibilmente con la malattia che distrugge il corpo, ma generalmente mantiene integro lo spirito e la mente. Come già affermato, chi assiste i malati terminali, ben sa che il paziente così assistito e curato non richiederà l’eutanasia e supererà le idee suicidarie, essendo attorniato da relazioni ricche di amore, sapendo di potersi rivolge a chi lo cura con la stessa affermazione che il Signore Gesù nell’Orto degli Ulivi rivolse ai suoi apostoli: “Restate qui e vegliate con me” (Mt. 26,38). Così un’infermiera di un hospice riassume i desideri di questi malati: “Spesso la cosa più importante che offriamo ai nostri pazienti è una tazza di tè e la possibilità di parlare della morte. Ed è quello che vogliono davvero. Qualcuno che li ascolti e che condivida con loro quest’ ultimo viaggio senza spaventarsi e senza scappare. Senza volere, a tutti i costi, fare qualcosa”
Si stima che ogni anno, in Italia, 250mila persone dovrebbero essere accompagnate da un approccio palliativo essendo malati terminali e i numeri aumenteranno per l’invecchiamento della popolazione. Il “Libro Bianco degli Hospice” riportava che ad aprile 2016 erano presenti sul territorio nazionale soltanto 185 strutture residenziali con un forte disequilibrio tra nord e sud. L’augurio e l’auspicio è che si possa, nonostante la limitatezza delle risorse, ampliare questi interventi, poiché il vero dramma dell’ammalato in fase terminale non è la presenza o l’assenza delle DAT o dell’Eutanasia di Stato ma il fatto che l’assistenza palliativa, in Italia, è ancora troppo scarsa.
Una precisazione. La legge 38/2010 semplificò anche la prescrizione dei farmaci analgesici basati sugli oppioidi per malati cronici e terminali (cfr. art 6). L’articolo, pur nella sua positività, pone alcune riserve. Vari malati terminali giungono alla fase finale della vita con alle spalle sofferenze acute e prolungate; di conseguenza, alleviare il dolore con farmaci appropriati, tra cui gli analgesici oppioidi, è da ritenersi corretto. Il problema etico si pone nei casi di assuefazione che obbliga l’incremento progressivo del medicinale, limitando la libertà del soggetto e portandolo, a volte, alla perdita di coscienza. La situazione, sollecita una notevole prudenza, non essendo lecito privare il moribondo della coscienza di sé in assenza di grave motivo. Dunque, l’uso degli analgesici oppioidi, è lecito a condizione che i soggetti interessati abbiano in precedenza adempiuto i doveri finali nei confronti dei familiari, della società e, se sono credenti, anche di Dio.
Don Gian Maria Comolli