Cinquant’anni fa, nel 1969, a Montevideo veniva pubblicato un volume intitolato Hacia una teología de la liberación (Verso una teologia della liberazione).
Autore era un ancor giovane teologo, Gustavo Gutierrez, nato nel 1928 a Lima, con studi di medicina nella sua città natale, di filosofia e psicologia a Lovanio e di teologia a Lione. In quel titolo risuonava il sintagma «teologia della liberazione» che sarebbe diventato un vessillo sventolato in tutta l’America Latina e una sorta di incubo invece in certi ambiti ecclesiali, a partire dalla Curia romana. Due anni dopo, nel 1971, a Lima appariva un suo testo programmatico dal titolo lapidario Teologia della liberazione (tradotto in italiano l’anno successivo dalla Queriniana di Brescia), scandito da una prospettiva dirompente rispetto alla riflessione dominante di allora.
Diverso, infatti, era il contesto, diversi gli interlocutori, diverso il metodo, diverso l’impianto tematico. Per il mondo occidentale di matrice europea la sfida che apriva sfide brucianti era la secolarizzazione, la non credenza. Per l’orizzonte latino-americano era la non-umanità, ossia il povero, l’oppresso, lo sfruttato. Il quadro religioso non era messo in crisi da un assalto intellettuale e teorico, bensì da una società disumana che infrangeva il canone cristiano della dignità personale e della carità. Si comprende, così, la ormai celebre e fin abusata formula coniata nella conferenza dell’episcopato latino-americano tenutasi in Messico a Puebla nel 1979, dieci anni dopo il primo saggio di Gutierrez: «l’opzione preferenziale per i poveri».
La teologia della liberazione riceveva, così, un avallo ecclesiale che, però, non avrebbe compresso la sua vitalità fremente che spinse alcuni esponenti a ricorrere a strumenti esterni, come l’analisi marxista della storia, oppure la teoria socio-politica della dipendenza strutturale dei paesi latinoamericani dall’imperialismo statunitense, o anche le pulsioni rivoluzionarie che si agitavano nel continente. L’asse si spostava, così, sempre più su istanze sociali configurando una sorta di escatologia terrena, creando reazioni da parte delle istituzioni centrali della S. Sede. Si ebbe, allora, una prima Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione, emessa nel 1984 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che marcava le cadute ideologiche di certe impostazioni militanti del movimento.
In realtà – e Gutierrez ne è un esempio – erano molti anche gli aspetti positivi, a partire proprio dal concetto di libertà che non può essere considerato solo in astratto ma nel suo esercizio concreto all’interno dei processi storici e socio-culturali, trasformandosi così in «liberazione». È supponendo tale linea che si muoveva la seconda Istruzione su libertà cristiana e liberazione proposta nel 1986 dalla Congregazione vaticana. In questa luce la teologia non poteva essere neutra, ma nel contesto specifico doveva attualizzarsi con una solidarietà effettiva, schierandosi dalla parte degli oppressi e dei poveri. Non si deve ignorare che gli eventi fondanti della fede biblica, come l’esodo di Israele dalla schiavitù dell’Egitto e lo stesso annunzio e l’opera di Cristo, si muovono lungo questa traiettoria.
La concezione di Gutierrez si colloca in una simile prospettiva. La Chiesa si deve inserire come seme e lievito nei processi di liberazione integrale della persona e dei popoli, offrendo il suo contributo efficace perché il regno di Dio, eretto sulla verità e sulla giustizia, inizi già ora ad essere edificato come prima tappa della pienezza escatologica. La teologia ha la funzione di elaborare una riflessione critica del comportamento ecclesiale, ribadendo alcuni capisaldi come la dignità della persona, la nozione del Dio biblico presente e attivo nella storia, la dimensione comunitaria e non intimistica della fede cristiana, la Parola di Dio non come astratto contenitore di verità ma come dinamica promozione di carità e giustizia, così da creare l’«uomo nuovo» più libero e nella pienezza della sua persona.
La figura del teologo peruviano è stata un punto di riferimento per molti, anche per il rigore e il calore del suo pensiero che è stato capace di evitare certe derive socio-politiche, senza però edulcorare l’incidenza concreta della sua visione. Essa si basa, infatti, su una liberazione “integrale” perché compatta e unitaria è la persona umana e, quindi, la teologia esige di essere sempre incarnata e contestualizzata. Si è, così, allargato nelle sue opere successive l’orizzonte, coinvolgendo temi come le minoranze, la vita, la dimensione mistica, la sessualità, l’istruzione e la cultura. Anche se ora meno rilevante, proprio a causa di un differente contesto socio-culturale e politico, la riflessione di Gutierrez rimane uno snodo ancor vivo nella teologia e nella pastorale, come è attestato dal magistero di papa Francesco.
Non bisogna, però, dimenticare che, proprio sull’America Latina si sta allargando il manto di una concezione religiosa (considerarla «teologia» è eccessivo) antitetica. È la cosiddetta «teologia della prosperità» di matrice neoliberista e conservatrice. Essa parte da un asserto anticotestamentario, per altro criticato da Gesù stesso (si legga Giovanni 9,1-3), secondo il quale al delitto corrisponde un castigo, a una sofferenza una colpa, a una ricchezza la benedizione divina che avalla l’operato del beneficiato. Si individua, allora, nella salute, nel benessere, nel successo economico-sociale, nella «prosperità» appunto, la benedizione o l’approvazione di Dio. Povertà, malattia, miseria, infelicità segnalerebbero invece il giudizio e la maledizione divina.
Questa giustificazione meccanica del bene e del male, che è agli antipodi della lettura «liberazionista», ha attualmente un grande successo in molti gruppi religiosi sudamericani, soprattutto di natura pentecostale-carismatica o in nuove «Chiese» evangelicali che hanno un forte impatto sulla popolazione marginale come forza illusoria, e sulla stessa vita politica (è, ad esempio, in Brasile il caso di molti sostenitori di Bolsonaro e del sindaco di Rio de Janeiro, capo di una nuova «Chiesa»).
in “Il Sole 24 Ore” del 19 maggio 2019