Nelle settimane in cui prosegue, nel nostro Parlamento, l’esame delle proposte legislative sull’eutanasia – sono la C.2 d’iniziativa popolare e C.1586 Cecconi, in questi giorni nelle Commissioni riunite II Giustizia e XII Affari sociali – si sta assistendo a un fenomeno preoccupante anche se prevedibile: il pressing a favore della “dolce morte”.
Infatti, in aggiunta all’esortazione che la Corte Costituzionale ha fatto al nostro Parlamento invitandolo, entro il 24 settembre 2019, a legiferare sul fine vita, si sono verificati in quest’ultimo periodo almeno tre diversi episodi che paiono poco confortanti. Almeno tre, per la precisione.
Il primo riguarda un ulteriore richiamo, sempre al Parlamento, a legiferare sull’eutanasia; un richiamo istituzionalmente autorevole giacché formulato – peraltro in maniera congiunta – dalla vicepresidente della Consulta, Marta Cartabia, dal primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, e dal vicepresidente del Csm, David Ermini.
Un secondo tipo di sostegno – questo di natura politica – alla “dolce morte” è invece arrivato, in questi giorni, con la netta presa di posizione assunta da Nicola Zingaretti, il quale, interpellato a Corriere Live sulle proposte di legge eutanasica in discussione alla Camera, ha dichiarato che lui e il suo partito, il Pd, garantiranno pieno appoggio: «Penso e spero che si faccia una legge sul fine vita, che preveda anche l’eutanasia».
Una terza spinta eutanasica, in aggiunta a quella istituzionale e politica, è stata quella di tipo propagandistico, emersa dall’Associazione Luca Coscioni, che ha reso noto un sondaggio Swg che proverebbe come addirittura il 93% dei cittadini, oggi, sarebbe favorevole a una legge che regolamenti il diritto di morire. È, quest’ultima, la solita vecchia strategia radicale del sondaggio, un trucco volto a far apparire una questione nei fatti marginale (gli italiani che chiedono di morire sono fortunatamente una minoranza infinitesimale) come qualcosa di urgente.
Ora, che fare? Come rispondere a questa pressione – lo si ricorda – istituzionale, politica e propagandistica a favore della “dolce morte”? La strategia più saggia pare quella di affrontare l’argomento sul piano razionale, esortando prima di tutto i nostri parlamentari a riflettere su degli aspetti sostanziali che aiutano a capire quanto l’eutanasia legale sia un rischio. Quali aspetti?
Il primo riguarda la malasanità: com’è possibile che si discuta di “diritto morire”, quando non è garantito il diritto alle cure? E a dirlo non sono i pro life, si badi, ma realtà laiche e super partes come l’Associazione degli anestesisti e dei rianimatori,che già quindici anni fa, in un suo rapporto, denunciava proprio a causa della malasanità 14.000 morti all’anno.
Un secondo aspetto da considerare riguarda la cosiddetta “china scivolosa”, termine che sta a indicare un fatto: ovunque l’eutanasia sia stata legalizzata – dall’Olanda al Belgio – è aumentata in pochi anni anche di oltre il 200%, arrivando a spaventare persino gli stessi medici favorevoli alla “dolce morte”. Perché non imparare dagli errori degli altri anziché ripeterli?
Infine, occorre far riflettere su un fatto: l’eutanasia legale rischia di stigmatizzare il malato, e in particolare il malato di ceto sociale non elevato. I ricchi, infatti, avranno sempre e comunque accesso alle cure migliori, mentre la “dolce morte” legale rischia di diventare una tendenza favorita dal fatto che alcuni inizieranno a sentirsi un peso per la società. Ma è questa società, questa Italia, quella che vogliamo? Un Paese in cui chi non è sano deve sentirsi di troppo? Pensiamoci bene.
Giuliano Guzzo