Come può un popolo ricostruire la propria identità ed elaborare un progetto per il presente e il futuro dopo un evento talmente grave da metterlo in ginocchio sotto il profilo non solo materiale, ma anche etico e culturale?
Pur limitandoci a considerare la storia dell’ultimo secolo, ci rendiamo facilmente conto che non si tratta di una questione teorica: lo testimoniano le vicende del nostro Paese o delle altre nazioni europee all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. L’interrogativo è anzi molto concreto, perché si tratta di individuare i principi di base su cui fondare o rifondare la vita insieme e gli strumenti necessari perché possa svilupparsi.
Anche nella Bibbia la questione si è posta per il popolo di Israele, in particolare dopo il “disastro” della deportazione e dell’esilio a Babilonia, e gli israeliti hanno cercato di darvi una risposta, compiendo scelte non sempre ben fondate, come è narrato nel libro dei Giudici.
In effetti, pur raccontando le vicende che vanno dalla conquista della terra sotto la guida di Giosuè all’inizio della monarchia con Samuele e Saul (1200-1050 a.C.), oggi gli studiosi riconoscono che il libro dei Giudici è una costruzione teologica in cui si affrontano le preoccupazioni del periodo successivo all’esilio (V sec. a.C.). Il nome “giudici”, dato al periodo e al libro, deriva dalla radice ebraica šāphāt, che significa «giudicare» o «governare» e trova in Giudici 2,16 la sua motivazione: Il Signore fece sorgere dei giudici, che li salvavano dalle mani di quelli che li depredavano. Il libro contiene informazioni di vario tenore su questi personaggi “suscitati dal Signore”: essi sono principalmente guerrieri o capi carismatici, capaci di coalizzare le forze in battaglia per affrontare i conflitti con i vicini e sconfiggere il nemico di turno, ma non sempre brillano per le loro qualità, né si distinguono per virtù.
Gli episodi che li vedono protagonisti generalmente sono privi di collegamenti spaziali o temporali e non c’è nessun personaggio centrale o avvenimento principale, che assicuri un’organizzazione globale al racconto. Si può, però, affermare che nel libro dei Giudici vengano presentati differenti stili di governo e modi di accostarsi alla cosa pubblica, tanto in positivo, quanto soprattutto in negativo.
Attraverso le varie figure che si muovono sulla scena, infatti, il libro mostra che si può costruire o distruggere un progetto di società ed evidenzia, spesso in modo caricaturale, rischi e opportunità connessi ai vari modelli e stili (cfr Lanoir C., «Giudici», in Römer T. – Macchi J.D. – Nihan C. [edd.], Guida di lettura dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2007, 239-250).
L’umano in scena
Tra le vicende presentate, quella della scelta di Iefte (Giudici 10,6-12,7) come capo è emblematica e mette impietosamente in scena l’umano in tutte le sue oscurità, dicotomie, compromissioni e ambivalenze. Se Platone sconsigliava di fare ciò (La Repubblica, III, § 395, in Platone, Opere complete, 6, Laterza, Bari 2003), vedendo nelle rappresentazioni mimetiche del punto di vista del malvagio una fonte di possibile empatia, il narratore biblico non risparmia nulla al suo lettore, esponendolo a tutto ciò che l’essere umano può tramare perché, comprendendo i meccanismi che conducono al male, possa operare in modo differente (cfr Anselmo V., Fece ciò che è male agli occhi di Yhwh. La figura narrativa di Acab in 1Re, GBPress, Roma 2018, 268).
L’elezione popolare di Iefte avviene nell’imminenza della battaglia con gli Ammoniti, popolo vicino a Israele sia per le comuni origini sia per geografia, che minaccia Galaad, una regione a est del Giordano. La situazione è tesa e tragica: contrariamente a quanto si è sempre verificato in precedenza, alle richieste di soccorso del popolo – accompagnate dal riconoscimento di aver seguito vie fallimentari nella ricerca della vita, affidandosi ad altri “signori”, cioè a idoli – non segue alcuna risposta divina. Non sorge, cioè, nessuno disposto ad assumersi i rischi della guida, nonostante i Galaaditi, terrorizzati, siano pronti a consegnare il potere e se stessi nelle mani di chi li condurrà in battaglia, senza preoccuparsi delle qualità morali e umane del futuro capo: la gente, i prìncipi di Galaad, si dissero l’un l’altro: «Chi sarà l’uomo che comincerà a combattere contro gli Ammoniti? Egli sarà il capo di tutti gli abitanti di Galaad» (Giudici 10,18).
E così, messo alle strette dall’attacco ammonita (Giudici 11,4), entra in scena il senato di Galaad, cioè gli “anziani”, che all’interno della comunità svolgono un servizio che ne implica la responsabilità.
Questi, la cui figura istituzionale è presente fin dal libro dell’Esodo (cfr 4,29 e 24,9), dovrebbero avere a cuore il bene della comunità e occuparsene, pertanto decidono di dedicarsi in prima persona alla ricerca del capo. Non essendoci nemmeno tra loro qualcuno disponibile a tale servizio, escogitano la soluzione di offrire il potere a Iefte (Giudici 11,5-6), un bastardo, figlio di una prostituta, cacciato e diseredato dai suoi fratellastri nati, dopo di lui, dalla legittima unione del padre Galaad (Giudici 11,1-2). Gli anziani di Galaad, come si scoprirà poi (Giudici 11,7), sono proprio quei fratellastri. Iefte viene introdotto nel racconto come uomo forte e valoroso (Giudici 11,1): abita a Tob, probabilmente vicino al confine con il Paese nemico di Ammon, ed è diventato un capobanda dedito alle scorrerie (Giudici 11,3-4). Appena se ne conosce la storia, però, viene il dubbio che le sofferenze passate abbiano indurito quest’uomo e che la sua forza sia alimentata dal rancore. Il lettore non tarda a rendersi conto che probabilmente quest’impressione è corretta.
Un patteggiamento di paure
L’autorità umana di Iefte sembra scaturire da un patteggiamento tra desideri, paure e interessi nascosti. Da una parte ci sono quelli che paralizzano gli anziani di Galaad, presi dal timore di soccombere, impedendo di far emergere le loro forze.
Essi inoltre nutrono pregiudizi sul fratellastro e una certa diffidenza nei suoi confronti. Lo evidenzia la fatica diplomatica nel proporre a Iefte quello che prìncipi e gente del popolo avevano già promesso a chi li avrebbe guidati in battaglia: diventare capo di tutti gli abitanti di Galaad (Giudici 11,8). La carica di condottiero offerta a Iefte all’inizio della trattativa (Giudici 11,6) è inferiore a quella di capo (Giudici 11,8). La differenza tra le due cariche è più o meno equiparabile a quella che passa tra un governo tecnico e un governo politico, tanto più che si tratterebbe di una carica “a vita”. Gli anziani di Galaad inoltre temono che Iefte presenti loro il conto per la malvagità compiuta molti anni prima nei suoi confronti e di perdere un potere ormai consolidato ma che è stato in un certo senso usurpato.
Quest’ultima paura emerge nel dialogo, là dove gli anziani si trovano in difficoltà a rispondere alla domanda di Iefte, che ritorna su quell’evento: Non siete forse voi quelli che mi avete odiato e scacciato dalla casa di mio padre? Perché venite da me ora che siete nell’angoscia? (Giudici 11,7).
Glissando o cercando di discolparsi, gli anziani balbettano una risposta, che può essere tradotta come segue, mettendo in evidenza il procedere stentato della sintassi: Proprio per questo (oppure, secondo la traduzione greca della Settanta: «Non è così»…) […] siamo tornati a te […] verrai con noi e combatterai (Giudici 11,8).
Quando in un luogo di servizio si concentrano potere, paura e senso di responsabilità per gli altri si crea una miscela esplosiva, capace di viziare ogni discernimento.
Dall’altra parte, però, ci sono le paure, gli interessi e le ambizioni di Iefte: la paura dell’isolamento, che lo rende aggressivo e sospettoso; il desiderio di riabilitazione, rivelato dal dialogo nel momento in cui Iefte rivanga il passato; l’ambizione e la sete di potere; la pretesa di una rivincita piena e avvalorata da Dio. Iefte ripropone l’accordo (Giudici 11,9) in modo tale che l’autorità di capo che egli si appresta ad assumere non sia intesa solo come umana (anche se in prima istanza è tale), ma sia ritenuta conforme anche alla volontà divina, di cui Iefte desidera e attende conferma eclatante e, soprattutto, pubblica attraverso la vittoria. Egli riesce così a far convergere il desiderio del popolo di essere liberato dalla paura e la propria sete di potere.
La delega della responsabilità
La non linearità, la mancanza di intenzioni pure, le agende occulte dell’una e dell’altra parte portano a una conclusione quasi surreale: gli anziani gettano se stessi e il popolo loro affidato nelle braccia di uno che temono e disprezzano, affidandogli ogni potere, con un consenso universale espresso “alla cieca”. In seguito alla candidatura proposta dagli anziani, infatti, il popolo – per sfuggire all’angoscia, senza attendere l’esito della battaglia cui Iefte ha subordinato la conferma da parte di Dio – conferisce subito tutto il potere a Iefte, costituendolo condottiero e capo.
Ciò è sintomatico del modo di intendere l’autorità non solo da parte del popolo, ma anche degli anziani, che hanno tenuto in mano la regia della nomina. Gli anziani non hanno cercato di incoraggiare e favorire il libero coinvolgimento di tutti nella assunzione della responsabilità dinanzi alla società e alla criticità del momento, suscitando risposte condivise.
Al contrario, hanno approfittato della miseria umana e hanno rintuzzato con una lusinghiera proposta l’opportunismo di Iefte, per farlo reagire con la paura di tutti. Si tratta di una ricetta letale, anche se però pare nell’immediato liberare dal travaglio dell’attesa dei tempi e dal rischio di compromettere la propria vita, i propri interessi, i propri affari e i propri privilegi. Passando dal Vieni e combatteremo (Giudici 11,6) al Vieni e combatterai tu (Giudici 11,8), gli anziani abdicano alla loro parte di responsabilità e di cura del bene comune. Il racconto biblico ha un suo modo di far conoscere il proprio giudizio al lettore: la scelta degli anziani ha come conseguenza, o contrappasso, la perdita di ogni consistenza, identità e parola. Né gli anziani, né le loro parole saranno più menzionati nel racconto.
Iefte, investito dell’autorità, si sente invece paladino di Dio e agisce come un re. Inizialmente dà prova di una straordinaria capacità diplomatica anche con gli Ammoniti, ma in seguito, volendo controllare e manipolare ciò che gli era stato offerto gratuitamente, rimarrà rovinato dalla sua stessa sete di legittimazione.
Anche per lui, che resterà giudice fino alla morte sopraggiunta sei anni dopo (numero che indica incompletezza), non ci sarà ricordo.
Beato il politico che non ha paura
Non c’è alcun dubbio che l’emozione predominante della nostra epoca sia proprio la paura e che di essa si faccia sempre più uso politico, creando dapprima un senso di insicurezza generalizzata, presentando come imminenti pericoli che lasciano impotenti e senza difese, strumentalizzando fatti di cronaca, alimentando i presunti motivi di paura e poi presentandosi come capaci di far fronte all’insicurezza creata, in modo da riscuotere in voti il corrispettivo per il grado di paura ottenuto. La riflessione biblica, però, è ancora più sottile nella sua disamina dell’animo umano, mostrando le segrete connivenze tra gli attori in gioco, tra i politici e colui che diventa capo assoluto. Tra le beatitudini del politico che papa Francesco nel Messaggio per la LII Giornata della pace del 1° gennaio 2019 ha ripreso da quelle proposte dal cardinale vietnamita François-Xavier Nguyen Van Thuan, morto nel 2002, l’ultima, che pare la Cenerentola della serie, recita: «Beato il politico che non ha paura». Essa forse, dalla sua umile posizione, sorregge tutto l’elenco.
di Laura Invernizzi
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Giugno-luglio 2019 – pp. 508-511