Noa Pothoven, la 17enne olandese che ha scelto l’eutanasia, andava sostenuta, accompagnata a vivere. Qualcuno è pronto a farci credere che siamo scarti.
48 ore. Dovevo lasciar passare 48 ore per poter scrivere qualcosa sull’assurda storia di Noa Pothoven, la ragazzina diciassettenne che, mano nella mano con la mamma, nella sua casa, ha scelto di lasciarsi morire, perché ferita da un dolore irredimibile. È morta “assistita medicalmente”, e solo quest’espressione dice tutto sullo stravolgimento di senso della professione medica, e più in generale dell’etica. Tutti si sono esercitati nell’arte di non giudicare, eppure il giudizio è necessario, è mossa della ragione, e l’astensione è reticenza, o vigliaccheria.
Noa andava sostenuta, accompagnata non a morire, ma a vivere. In caso, liberandola dall’amore distorto dei suoi familiari, affidata a uno psichiatra, a una comunità lieta e capace di suscitare speranza. Ci sarebbe stato un amico, un viaggio o un amore in grado di farle guardare il cielo con un sorriso.
Ho incontrato in questi stessi giorni un libro, e un compagno di strada, nel filosofo argentino, adottato dalla Francia, Miguel Benasayag. Funzionare o esistere, si intitola, e con audacia è pubblicato da un’antica e abile casa editrice cattolica, Vita e pensiero. Si tratta infatti di un pensatore non credente, di un ribelle, un attivista rivoluzionario.
Bene, le sue riflessioni sono liberanti, e toccano il nostro destino, dunque anche quello di Noa. Non siamo fatti per funzionare. Non siamo fatti per essere dei profili, modellabili, catalogabili, contabilizzati. Siamo persone, diverse una dall’altra, unici e ripetibili. Siamo fatti per tante splendide passioni inutili, che danno gusto alla vita. Siamo fatti per sprecare un po’ il tempo, perché la rincorsa del tempo ci sfianca, e non ci garantisce nulla: la vecchiaia e la morte arrivano comunque, non siamo immortali, benché tutto tenda a spacciarci questa menzogna come possibile.
Le nostre fragilità sono un dato, e non per forza negativo: ci sono, dipende da noi guardare l’ordinario come straordinario. Se non funzioniamo come vorremmo, noi Noa anoressiche e depresse, noi anziani malati, noi disabili gravi, noi “vegetali” terminali, noi con un gene sbagliato, o semplicemente infelici, non cediamo alla tentazione di crederci errori, scarti, da eliminare o auto eliminare, così leviamo anche il disturbo all’eugenetica organizzata.
Ma cito Benasayag perché era un ragazzo, quando giustamente protestava contro la terribile dittatura argentina di Videla, e militava nella resistenza, senza cedere alle ideologie che esaltavano la lotta armata. È stato catturato, torturato e detenuto per anni in prigione. Ha visto uccidere sua moglie, che aspettava il loro bambino. Ha trovato la forza in sé, o forse, anche inconsapevolmente, l’azione dello Spirito Santo, e ne è uscito, di mestiere fa anche lo psicanalista, e aiuta tanti “falliti” a rinascere.
Ho in mente un ragazzo, che da otto anni lotta come un leone con un male incurabile, fatale, per tutti i medici che ha incontrato. Aveva pochi mesi da vivere, dicevano i “dati”, sono passati otto anni, e non si è mai arreso, non si arrendono i medici, i familiari, a far sì che viva, godendo di ogni attimo presente con pienezza. Per questo cammina. Il cammino si fa andando, e non da soli. Tutti ci indicano mete. Tutti ci spingono a guardare più in là, ma l’oltre non è il destino o il cielo stellato sopra di noi. L’oltre è la carriera, il successo, la resa. Riprendiamoci il diritto a non arrenderci, ad essere, camminando con il nostro passo, più o meno lento che sia. È l’umanesimo cristiano. Averlo cancellato dal pensiero, dall’ethos comune, ha generato mostri, dissennatori capaci di risucchiare anche l’anima di una ragazzina.
6 giugno 2019
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