Gianpietro Briola (presidente Avis): “Il nostro sistema funziona perché è etico, non emergenziale“.
La Giornata mondiale dei donatori di sangue ci ricorda l’importanza di un piccolo gesto che non costa niente e fa bene alla salute. A quella di chi oggi soffre e domani potrebbe star meglio e a quella di chi dona, che si assicura controlli continuativi, approfonditi e gratuiti. L’Italia nel settore è un’eccellenza, come certificato dall’Organizzazione mondiale della sanità, ma non mancano margini di miglioramento. Ne abbiamo parlato con il dott. Gianpietro Briola, presidente nazionale dell’Associazione volontari italiani del sangue (Avis), forse la più nota realtà italiana nel campo.
La buona notizia è che il trend negativo di donazioni registrato negli scorsi anni sembra essersi interrotto…
“E’ vero: dopo un lungo periodo il dato è finalmente tornato a crescere, anche se di poco. Ogni anno perdiamo circa il 10% dei donatori attivi e dobbiamo, quindi, lavorare costantemente per mantenere il numero totale alto. Quest’anno siamo riusciti a guadagnare uno 0,25% e ciò testimonia l’opera portata avanti dalle associazioni in una fase caratterizzata dal calo demografico e dall’invecchiamento della popolazione”.
E’ per questo che i donatori under 25 continuano a essere pochi?
“Non solo. In età così giovane difficilmente si pensa alla donazione se non si è stimolati a livello sociale e familiare. C’è poi anche un problema che riguarda la conservazione del sangue. I prelievi solitamente, sia nei centri trasfusionali che nelle associazioni, si fanno dalle 8 alle 11 del mattino e molti giovani hanno difficoltà a presentarsi perché frequentano i corsi universitari o lavorano come precari e non chiedono la giornata di riposo compensativo per evitare ripercussioni”.
State collaborando con le imprese per risolvere questo problema?
“Sì, stiamo incontrando i datori di lavoro e i sindacati per cercare di trovare una soluzione, ad esempio permessi programmati o limitati a giornate o orari particolari secondo le esigenze delle aziende. L’obiettivo è individuare insieme delle formule che possano agevolare la donazione. Anche perché oggi in Italia i donatori che chiedono il riposo compensativo sono il 14/15% del totale e sono quasi tutti
dipendenti pubblici”.
C’è un altro dato che fa riflettere: l’esiguo numero di donazioni effettuate da chi non è iscritto ad associazioni come la vostra. Come se lo spiega?
“Secondo me dipende da vari fattori, per come l’abitudine e l’attitudine del territorio o semplicemente il volersi riconoscere in un’associazione. C’è poi un altro elemento…”
Quale?
“Questi dati non tengono conto del fatto che per alcune associazioni, fra cui l’Avis, per essere iscritti occorre aver donato almeno 2 volte. Molti, invece, donano una volta e basta e, di conseguenza, non vengono considerati associati. Ci sono poi le politiche delle singole associazioni; noi, ad esempio, portiamo avanti quella della donazione continuativa, che assicura maggiori controlli e, quindi, la sicurezza del sangue donato. Del resto, per quel che ci riguarda, la donazione del plasma non è un tema emergenziale ma di necessità quotidiana. Ciò porta i volontari a sentirsi parte di un sistema”.
Forse anche per questo il sistema italiano è stato definito ‘un modello’ dall’Oms…
“Esatto: il modello italiano è di tipo etico, basato cioè sulle donazioni volontarie. Funziona bene perché si fonda sulla stretta collaborazione fra strutture sanitarie, professionisti e associazioni, come previsto dalla legge. Oggi le realtà associative in Italia partecipano alla programmazione, alla raccolta, alla gestione dei donatori e prendono parte ai tavoli di confronto con la parte politica. Aggiungo una cosa…”
Faccia pure…
“In Italia il sangue e il plasma sono di proprietà esclusiva dell’ente pubblico. E questo vale anche per gli emodcomponenti e per i farmaci plasmaderivati. Nessun privato può reclamarne la titolarità”.
Quali sono le regioni più virtuose?
“Ci sono innanzitutto quelle del Nord: il Friuli Venezia Giulia per quanto riguarda il plasma, la Lombardia che produce circa un quarto degli emocomponenti impiegati a livello nazionale e l’Emilia Romagna. Ci sono poi alcune regioni del Centro: le Marche per ciò che concerne la produzione dei farmaci plasmaderivati e la Toscana, nonostante qualche difficoltà dovuta, però, ai picchi di attività sanitaria e non al numero di donazioni”.
E quelle più problematiche?
“La Campania e la Sicilia hanno entrambi problemi di natura organizzativa e gestionale. Un’altra zona in difficoltà è quella di Roma: la quantità di residenti effettivi non è sufficiente per soddisfare le esigenze degli ospedali. La Capitale è la prima grande città di approdo della migrazione sanitaria dal Meridione e ad essa si appoggiano molte strutture del Lazio. Di conseguenza c’è un disavanzo negativo fra sangue donato e domanda”.
E’ sempre lo zero rh negativo il gruppo sanguigno più richiesto?
“Sì, perché è un gruppo sanguigno universale, che, in emergenza può essere usato per qualsiasi tipo di paziente. Per cui è bene averne sempre delle sacche di riserva. Detto questo, in fase di programmazione, viene scelto, per ogni persona, il suo gruppo sanguigno, per evitare il rischio di una reazione immunitaria dell’organismo”.
Se le donazioni di sangue ricominciano a crescere quelle di midollo sono ancora troppo poche. Perché questa diffidenza?
“Credo sia un problema di natura culturale. Il prelievo intraosseo di midollo oggi è molto raro e limitato a casi particolari, mentre si privilegia la donazione di cellule staminale periferiche. La produzione viene stimolata nel donatore tramite l’assunzione di farmaci, cui segue un normale prelievo. Bisognerebbe farlo capire alle persone”.
Luca La Mantia
16 giugno 2019
https://www.interris.it/sociale/donazioni-di-sangue–i-giovani-possono-fare-di-pi