Quello che interessa a un’insegnante e a qualsiasi tipo di educatore, è la salute dei bambini. Il senso di protezione e la sensibilità che chiunque abbia a che fare coi bambini deve dimostrare, è il presupposto perché si attui un’equilibrata attenzione nei confronti del singolo bambino e del gruppo del quale egli fa parte. Per qualsiasi maestra (uso questo termine vetusto poiché per me significa un insieme di dolce fermezza e grande competenza) ogni bambino è uguale al compagno, ma, contemporaneamente, è un universo a sé stante: negli ultimi quarant’anni la possibilità che in un singolo gruppo-classe possano giungere bambini da realtà familiari differenti per situazione economica, religione, cultura o storia familiare, è sempre più una probabilità nei confronti della quale ogni insegnante deve prepararsi. Questo non significa né che si debba preventivamente essere indisposti verso la particolarità portata (spesso come un fardello) dal singolo bambino, né – per eccesso di zelo o accettazione politicamente corretta – abbracciare ogni tipologia di singolarità: questo poiché l’educatore non si relaziona solo con il singolo, ma con un gruppo che va reso coeso ma non omogeneo e, soprattutto, non deve essere contagiato da ideologie o mentalità “adultistiche” che possono abbassare la soglia di tolleranza e apertura verso l’altro che ogni bambino deve maturare nel processo di socializzazione che è più o meno semplice per ciò che riguarda ogni bambino in modo differente. In sostanza il bambino possiede già un bel peso nell’adattarsi all’assenza scolastica dei genitori e nel fatto di dover imparare a condividere le proprie e le altrui emozioni, che tutto quello che deve poter affrontare a scuola deve arricchirlo, divertirlo, istruirlo e farlo sentire in grado di gioire del tempo che trascorre fuori casa: non è dovere del bambino sopportare il peso di una o più problematiche culturali del mondo adulto. Il compito dell’educatore è mitigare le difficoltà del singolo e rafforzarlo nelle sue competenze, proporre attività istruttive ed educative, progredire col progetto didattico annuale e collocare tutto in un progresso di gruppo: è per questo motivo che essere adulto tra i piccoli è un mestiere che deve poter riscuotere attenzione e rispetto, al di là dei fatti singoli che danneggiano copiosamente la categoria, ma che sono statisticamente – anche se ne basta uno perché sia raccapricciante e terribile – infinitesimali.
Francesca Centofanti, educatrice, ci espone con sensibilità e legittimità una questione importante che riguarda la possibile inclusione in un gruppo classe di un bambino che proviene da un contesto familiare non usuale, e ciò l’ha portata a riflettere molto sulla sensibilità che deve ricevere dal gruppo questo bambino, ma anche – e in maniera uguale – sull’importanza di come la singola situazione di un bambino influisca, e in che modo, sul gruppo classe. Inoltre, e non di poca importanza, c’è la sensibilità dell’educatore che deve poter essere rispettata poiché nessuno può andare contro la propria morale e la propria etica, sapendo che al centro di qualsiasi progetto educativo collettivo, c’è la persona – “Bambino” e che mai nessuno deve poterla danneggiare, se pur involontariamente, in alcun modo, mentendogli.
Da quando nel 2014 ho cominciato ad aprire gli occhi sullo “tsunami” che stava per travolgerci a livello sociale, ma soprattutto – anche per me – a livello educativo e scolastico, la prima domanda che mi sono posta è come mi sarei interfacciata con le persone che ritenevano questo, invece che uno “tsunami”, una vittoria su un pensiero ritenuto “antico” e “medievale”. Sto parlando della possibilità che dei bambini avessero due genitori del medesimo sesso (diciamo così, anche se il termine genitori è biologico, per cui non è esatto). In realtà il mio primo pensiero concreto è subito corso ai bambini che vivevano queste situazioni di omogenitorialità, perché è con loro che io mi sarei dovuta rapportare. Cosa avrei fatto? Come mi sarei comportata?
Avrei avuto certo meno pensieri se avessi fatto la postina o la gelataia, ma sono un’insegnante e le mie azioni, le mie scelte, le mie parole, a volte anche i miei pensieri, hanno la stessa proprietà di un sasso gettato nell’acqua: le onde si propagano fino a toccare tutto ciò che c’è nelle prossimità del suo tonfo. E più il sasso è grande, più le onde travolgono. E a volte, non lo nego, ho provato un senso di vuoto. Un senso di incapacità, di inadeguatezza. Una spaccatura. Riflettendo su queste situazioni mi sono sentita lacerata tra una realtà da vivere e la verità da non perdere.
Non mi sono ancora trovata ad affrontare una situazione del genere, ma sarà inevitabile che accada in questi anni di insegnamento che mi restano. Ed è questa convinzione che mi spinge a non smettere mai di domandarmi, ogni giorno, cosa farò. Non ho trovato una risposta esaustiva, quella con la R maiuscola, che mi toglierebbe finalmente ogni dubbio e dissiperebbe tutte le mie ansie.
L’unica volta che ebbi a che fare con una coppia omogenitoriale nell’ambito scolastico, non andò molto bene, lo riconosco. Si trattò di un’entrata “in scivolata” e a “gamba tesa”: una serie di richieste che io percepii più come una serie di pretese, tanto da viverle al limite dell’invadenza, dal punto di vista personale e, soprattutto, didattico. «Qualora mio figlio fosse preso in questa scuola – mi dissero i genitori – gli insegnanti dovranno adeguarsi alla nostra vita, apportando cambiamenti alle loro modalità di insegnamento», venni informata. Secondo loro avremmo dovuto adottare libri di favole che trattavano di famiglie come le loro, avviare progetti arcobaleno cambiando l’assetto didattico, parlare ed informare tutti i bambini della sezione circa la situazione e dirgli che la loro è semplicemente una tipologia di famiglia, tra le tante. Insomma: avremmo dovuto trasmettere ai nostri quattrenni l’informazione che un bambino può nascere da due mamme o da due papà, che questa situazione è normale e che, in estrema sintesi, sarebbe una condizione privilegiata rispetto alla vetusta situazione naturale di possesso di una madre e un padre.
Lo sottolineo: io mi occupo di bambini dai 3 ai 6 anni, una delle fasi più delicate della crescita psicologica ed affettiva dell’essere umano, e per me la salute psicofisica di tutti i bambini è fondamentale.
La risposta che diedi alla coppia fu abbastanza frettolosa, educata ma sbrigativa, e il significato era che ringraziavo dell’aiuto, ma l’educatrice sono io e avrei deciso io come muovermi. Dissi loro che la loro figlia sarebbe stata accolta con amore, un amore ancora più attento e profondo, vista la situazione, ma che non avrei potuto mentire a nessuno degli altri miei alunni, perché ne avevo altri di bambini, tutti esattamente con gli stessi bisogni di attenzione e delicatezza. Per nessun motivo mi sarei arrogata il diritto di spiegare a bimbi così piccoli un argomento così delicato, che solo la famiglia dei minori interessati avrebbe potuto e dovuto affrontare (sopratutto a quell’età) secondo i tempi e le modalità secondo loro più appropriate.
Forse fu la percezione di un atteggiamento di arroganza e prepotenza da parte di quella coppia, più che di una richiesta di collaborazione, che mi fece non tentennare, quella volta. Ma anche dopo questo incontro non ho smesso un attimo di riflettere. Tanto. Continuamente. Perché questa realtà esiste. E devo sapere come affrontarla.
Alla fine, forse, una risposta piccola piccola, io me la sono data.
Sono certa che la situazione va vissuta giorno dopo giorno. Molto semplicemente. Perché penso a tutte quelle volte che mi sono capitati bambini con genitori divorziati o con genitori defunti o bimbi adottati, alunni con fratellini o sorelline malati. E non ho organizzato una tavola rotonda sulla loro situazione familiare, ma ho vissuto insieme a loro i momenti, le gioie, i pianti, le risate, le arrabbiature, nella semplice quotidianità con un’attenzione particolare perché altre sofferenze non piombassero loro addosso come macigni. Educandoli con attenzione e in punta di piedi. Ma senza mentire.
Ma se invece mi facessero domande dirette? Esplicite sull’argomento? Anche a questa domanda credevo fosse difficile rispondere, ma ho pensato a me, proprio a me, a come sono fatta, e la risposta è arrivata, semplicemente. Perché non dovrei fare altro che essere me stessa, infatti con nessun bambino mi arrogherei mai il diritto di parlare di cose delicate, qualunque sia l’argomento. Sorvolerei. Demanderei ai genitori. Come quando è capitato che mi hanno fatto domande sulla morte. Come parlare della morte a bambini così piccoli? Un insegnante deve stare attento, ogni parola in più su situazioni così delicate può essere altamente destabilizzante. Magari perché in contrasto con la linea tenuta in famiglia. Un conto sono i miei figli, un conto sono i miei alunni. Insomma a domande troppo delicate troverei il modo di sorvolare e sicuramente demandare ai genitori. Dovrei fare così.
Ma la cosa più importante è la quotidianità. Il contatto giornaliero. E certo non avrei nessun tipo di giudizio verso il bimbo. Verso nessun bambino. Ogni bambino è un dono prezioso per la mia vita. In ultimo, per quanto riguarda il rapporto con la famiglia, sarebbe esattamente come con gli altri genitori. Se mi si dovesse aprire la possibilità di un confronto sereno con loro, se dovesse succedere di entrare più in confidenza, troverei il modo di dire ciò che penso, solo se non avrò nel cuore neanche un velo di giudizio, con misericordia e serenità, altrimenti meglio il silenzio. Perché a questo siamo chiamati, Verità e Misericordia sempre a braccetto. Per il resto ho ancora mille dubbi, mille domande, mille paure, ma confido nel discernimento che spero Dio mi donerà in ogni situazione.
La riflessione che a questo punto potremmo effettuare, sta concretamente nel pensare in che modo inserire un bambino che vive una situazione differente da quella della maggioranza, parimenti a qualsiasi condizione particolare. Partendo col presupposto che è il benessere del bambino, il principio essenziale che deve muovere tutte le azioni degli adulti che lo circondano, ci si potrebbe chiedere se la condizione di omogenitorialità sia da considerare normale o diversa dalla maggioranza. In realtà l’opinione pubblica va nella direzione del concepire l’omogenitorialità come una condizione normale che non abbisogna di nulla se non del rispetto che si deve a ogni persona, né di più, né di meno. In questo caso, nessuna richiesta dovrebbe essere mossa verso le insegnanti che tratterebbero il bambino, come qualsiasi altro: la stessa delicatezza, lo stesso amore, la stessa attenzione. Quando la situazione familiare si fa delicata – Francesca parla di, ad esempio, adozioni – è necessario un aiuto professionale, e quando il contesto riguarda l’affettività e la sessualità, la collaborazione esterna con dei professionisti è necessaria per la salvaguardia del benessere del bambino: ad esempio puo intervenire un singolo psicologo o un team/associazione anche multidisciplinare di professionisti.
Uno dei primi punti riguarda l’alleanza educativa tra scuola e famiglia, il secondo punto riguarda la maturazione cognitiva del bambino coinvolto (linguistica, relazionale, ad esempio, a seconda dell’età e della personalità) e il terzo punto riguarda la possibilità di fare un’azione personalizzata e individualizzata sul bambino. Compiere un discorso generalizzato su come un’insegnante può attivarsi in queste condizioni è errato parimenti a lasciare che possa agire senza possedere un riferimento professionale esterno, poiché il rischio di agire per istinto o per ideologia (il cosiddetto “partito preso”) è possibile e potrebbe danneggiare non solo il singolo bambino, ma anche il gruppo classe. Il progetto, poi, andrebbe inserito in una didattica straordinaria, poiché l’intero progetto non è una richiesta del bambino. Quest’ultimo ha bisogno di affrontare con chiarezza quello che vede, quello che sente e non può comprendere quello che non conosce, del quale non ha esperienza.
Da un altro punto di vista, il lavoro che potrebbe essere fatto è ciò che viene chiamata “coesione educativa” e quindi prima di portare qualsiasi tipo di lavoro in classe, è necessario fare un lavoro di cooperazione tra i genitori: organizzare degli incontri durante i quali si possano affrontare discussioni, preventive rispetto a qualsiasi situazione coinvolga il bambino. L’esperto esterno, il cui compito precipuo non è quello di affermare dove stia il giusto e dove lo sbagliato, dove stia la normalità e dove l’anormalità, ma è assolutamente quello di aiutare ogni genitore ad affrontare i propri dubbi perché tutti possano esporre il proprio punto di vista per trovare, tutti insieme, una strategia comune e dei contenuti condivisi per parlare coi loro figli, di questi temi. L’obiettivo della “coesione educativa” è proprio quella di trovare una sincronia comune rispetto a quella di trattare alcuni temi. Circa la maturazione personale del singolo bambino, non dobbiamo dimenticare che durante la fascia d’età che ci riguarda (quella della scuola dell’Infanzia), i bambini sanno riconoscere la loro mascolinità o femminilità attraverso il dato biologico. Questo poiché la biologia non è un aspetto filosofico della realtà: ha delle regole, ha degli aspetti incontrovertibili. Un bambino viene al mondo se un ovocita e uno spermatozoo s’incontrano. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’ovocita appartiene alla madre del bambino medesimo, parimenti lo spermatozoo appartiene al padre. Entrambi sono genitori di quel bambino. Lo sono se uno dei due muore, se uno dei due si “volatilizza”, se uno dei due concede/vende il proprio gamete. Che poi quel bambino sia allevato, cresciuto, educato e amato da due genitori che possono anche non essere direttamente coinvolti biologicamente con lui, questo non cambia di una virgola il fatto ch’egli possegga due genitori biologici (verso i quali tanti bambini/adolescenti adottati hanno attenzione e curiosità) e due genitori adottivi che tentano di riequilibrare l’esistenza di quel bambino, occupandosene. Il fatto che un bambino nasca senza una figura genitoriale (per qualsiasi motivo: decesso, fuga, “scomparsa”), gli potrebbe rendere la vita differente anche se il genitore rimanente lo cresce al meglio, anche se i bambini hanno una capacità di adattamento molto forte (resilienza) e anche se il genitore superstite è una persona responsabile e capace, inoltre – ovviamente – tale mancanza è paritaria dal punto di vista sessuale: un padre mancante sarà importante per un maschietto e per una femminuccia, parimenti lo sarà una mamma. Se un genitore si accompagna a un’altra persona che non possiede un legame biologico e che, comunque, vuole bene al bambino e lo rispetta, è una relazione che giova sicuramente al bambino, rispetto al convivere con un compagno di un genitore che lo maltratta: tuttavia è innegabile il fatto che quel bambino avrà comunque bisogno di interfacciarsi con entrambi i sessi. È fisiologia. Perché la fisiologia e la biologia non possono sbagliarsi: se un bambino è possibile generarlo con due cellule germinali, una maschile e una femminile, significa che entrambe le figure sessuali sono importanti. E la soluzione al fatto che per talune persone è impossibile concepire di accompagnarsi con persone del sesso opposto, ma possono – in un modo o nell’altro – avere dei figli, non è mentire a questi ultimi sulla biologia, ma affermare la verità motivando con semplicità la loro scelta, senza pretendere di modificare la realtà circostante al bambino per renderla a propria misura. Poiché io non impongo l’acquisizione del braille in una classe di bambini vedenti, con lo scopo d’insegnare a mio figlio che la sua situazione è normale. Il presupposto è che la situazione particolare di un bambino susciti sempre rispetto e che non si escluda il fatto che i bambini, con gioia e “inclusività” spontanee, acquisiscano alcune parole di braille per non far sentire il compagno escluso: ma il rispetto non è mai imporre una realtà come se questa fosse assoluta e l’unica possibile. Io, genitore, richiedo ovvia sensibilità per mio figlio: ne ho il diritto quanto un insegnante ha il dovere di accogliere con amore infinito quel bambino che presenta quella data particolarità, ma mentire al bambino dicendogli che la sua situazione è quella fisiologica imponendo a tutti di accettarla (mettendo quindi in discussione la propria), non è possibile né, meramente, educato e corretto anche nei confronti del bambino medesimo. E, se tale scelta non riguarda la maggioranza delle persone, non può essere una pretesa quella di coinvolgere altri adulti o altri bambini in una sorta di “grande recitazione”.
Essere educatori è fondamentale. Essere insegnanti lo è parimenti. Pregiudizi negativi nei confronti di singole situazioni dovrebbero non sussistere e bisognerebbe comprendere sempre l’origine di quel dato pregiudizio, sapendo consapevolmente che nulla deve gravare sull’allievo, soprattutto se è piccolo e vive una situazione che non dipende dalla sua volontà. Opinioni politiche, scelte personali, giudizi negativi espressi senza direttamente conoscere le singole situazioni, sono da evitare. La scelta più consona è usare delicatezza e non scostarsi dalla fisiologia che è, ancora, inoppugnabile.
Quello che interessa a un’insegnante e a qualsiasi tipo di educatore, è la salute dei bambini. Il senso di protezione e la sensibilità che chiunque abbia a che fare coi bambini deve dimostrare, è il presupposto perché si attui un’equilibrata attenzione nei confronti del singolo bambino e del gruppo del quale egli fa parte. Per qualsiasi maestra (uso questo termine vetusto poiché per me significa un insieme di dolce fermezza e grande competenza) ogni bambino è uguale al compagno, ma, contemporaneamente, è un universo a sé stante: negli ultimi quarant’anni la possibilità che in un singolo gruppo-classe possano giungere bambini da realtà familiari differenti per situazione economica, religione, cultura o storia familiare, è sempre più una probabilità nei confronti della quale ogni insegnante deve prepararsi. Questo non significa né che si debba preventivamente essere indisposti verso la particolarità portata (spesso come un fardello) dal singolo bambino, né – per eccesso di zelo o accettazione politicamente corretta – abbracciare ogni tipologia di singolarità: questo poiché l’educatore non si relaziona solo con il singolo, ma con un gruppo che va reso coeso ma non omogeneo e, soprattutto, non deve essere contagiato da ideologie o mentalità “adultistiche” che possono abbassare la soglia di tolleranza e apertura verso l’altro che ogni bambino deve maturare nel processo di socializzazione che è più o meno semplice per ciò che riguarda ogni bambino in modo differente. In sostanza il bambino possiede già un bel peso nell’adattarsi all’assenza scolastica dei genitori e nel fatto di dover imparare a condividere le proprie e le altrui emozioni, che tutto quello che deve poter affrontare a scuola deve arricchirlo, divertirlo, istruirlo e farlo sentire in grado di gioire del tempo che trascorre fuori casa: non è dovere del bambino sopportare il peso di una o più problematiche culturali del mondo adulto. Il compito dell’educatore è mitigare le difficoltà del singolo e rafforzarlo nelle sue competenze, proporre attività istruttive ed educative, progredire col progetto didattico annuale e collocare tutto in un progresso di gruppo: è per questo motivo che essere adulto tra i piccoli è un mestiere che deve poter riscuotere attenzione e rispetto, al di là dei fatti singoli che danneggiano copiosamente la categoria, ma che sono statisticamente – anche se ne basta uno perché sia raccapricciante e terribile – infinitesimali.
Ringrazio ogni insegnante che compie con amore verso l’infanzia e verso ogni singolo bambino -futuro adulto- un lavoro fatto di rispetto e gioia. Tutti i bambini sono uguali, di fronte al mondo degli adulti, e ogni bambino è un meraviglioso universo che deve potersi sviluppare.
Rachele Sagramoso – Francesca Centofanti
17.6.2019
http://www.lacrocequotidiano.it/articolo/2019/06/17/societa/le-cosiddette-famiglie-omogenitoriali-viste-dalla-scuola-dellinfanzia