Propongo come riflessione per questa settimana l’ultimo contributo che Sandro Venturoli, morto alcuni giorni fa e conosciuto da molti di voi, ha offerto lo scorso maggio al Convegno Nazionale organizzato dall’Ufficio per la Pastorale della Salute. Ci farà riflettere su due temi importanti per ciascuno di noi: l’importanza della quotidianità e il rapporto con la nostra morte.
Noi valutiamo il quotidiano rivestendolo di grigiore, considerandolo banale, ripetitivo eppure è nel quotidiano che si svolge la nostra vita. Nel quotidiano si preparano anche le catastrofi relazionali con l’accumulo del non detto: la fine di un’amicizia, di un amore, di una sintonia o affinità. Nel quotidiano, però, un passo alla volta si costruiscono anche i risultati positivi, il raggiungimento di obiettivi, la gioia della vittoria e il dolore della sconfitta.
Chiamiamo felicità la ricerca dell’eccezionale, dello straordinario e banalizziamo il quotidiano nonostante esso e solo esso è: lo spazio della fede, dell’amicizia, dell’amore, della sete di giustizia; la scuola della sobrietà o il dominio della voracità; l’esercizio della pazienza o la nevrosi dell’impazienza; lo smascheramento degli ideali militanti e non praticati e delle parole pesanti costruite sul niente; l’occasione silenziosa per esprimere l’amore a essere fedeli in modo autentico; la verifica e la prova dell’obiettività che è il seme della conoscenza e della sapienza, le verifica della nostra fragilità, del nostro limite e della nostra vulnerabilità; solo lì nel quotidiano si scopre la forza curativa delle relazioni e quella distruttiva delle parole. Non va addolcito ne idealizzato il quotidiano, va solo vissuto… consapevolmente.
Abbiamo rimosso il pensiero della morte, non della morte in generale ma della nostra personale morte fisica, fatichiamo a crederla perfino veramente possibile. Illusi dal post-umano, inebriati dalla ricerca di pietre filosofali che rendono immortali. Senza la consapevolezza concreta e esistenziale della nostra personalissima morte fatichiiamo a vedere e godere di quel che la vita ci dà nella ricerca nevrotica di un “altro” che non c’è. E, allora, rischiamo di vivere senza vivere veramente. Inconsapevolmente!