(Intervento tenuto il 20 settembre 2019 presso il duomo di Pavia)
Un caro saluto a tutti voi fratelli e sorelle di questa Chiesa di Pavia.
Vi dico la gioia di essere in mezzo a voi nella vostra cattedrale in questa significativa circostanza dell’apertura del nuovo anno pastorale. Un saluto fraterno al vescovo Corrado che ringrazio di cuore per l’invito che mi ha rivolto e per la fiducia.
Indirizzandomi l’invito, il vescovo mi scriveva: “Vorremmo che lei ci offrisse una sua riflessione sul tema, da lei già sviluppato in altre occasioni, “Celebrare da cristiani nel nostro tempo”, aiutandoci a mettere a fuoco che cosa significa per le comunità e per i credenti vivere il gesto della celebrazione eucaristica, che di domenica in domenica, segna il ritmo e il cammino dei cristiani, dentro questo mondo, in questa età secolare”.
Se è vero che ho già trattato questo tema in passato, l’ho fatto tuttavia in un ambito universitario che è cosa molta diversa e a ben guardare meno impegnativa che farlo davanti a una Chiesa locale radunata nella cattedrale attorno al suo vescovo. Per questo, non ho davvero nulla da insegnare a voi ma semplicemente ho qualcosa da condividere con voi che è la passione per la vita della Chiesa, le inquietudini per il futuro del cristianesimo in Occidente, le angosce e le speranze per l’umanità di oggi.
Radunarsi ogni domenica per celebrare da cristiani l’eucaristia dentro questo mondo e senza evaderlo, celebrare in un tempo segnato da una secolarizzazione pervasiva di cui riusciamo per ora solo a intuire le implicazioni e le possibili conseguenze nella vita della Chiesa di domani, ci pone come comunità cristiana in una situazione del tutto inedita, che sembra non permetterci di intraprendere la via comoda di proiettare nel futuro ciò che come Chiesa siamo stati e abbiamo fatto nel passato anche quello più recente. Essere Chiesa e celebrare da cristiani nell’età secolare non domanda un semplice sforzo organizzativo o di elaborare nuove strategie, ma chiede a ciascuno e a tutti una rinnovata passione per il Vangelo di Gesù Cristo che anche dopo secoli e secoli di cristianesimo, resta ancora oggi per noi credenti una parola inedita e inaudita, perché la novità di quello che l’Apocalisse chiama il “Vangelo eterno” (Ap 14,16) è una novità che non sarà mai destinata a esaurirsi nella storia. Possiamo allora comprendere il senso della paradossale ma salutare provocazione del filosofo e teologo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) quando scriveva: “Il cristianesimo non esiste ancora”1. Rispetto a Kierkegaard, la cristianità è alla nostre spalle e, nel nostro Occidente, viviamo ormai da alcuni decenni quell’età secolare nella quale la stragrande maggioranza dei nostri contemporanei non sembrapiù riconoscersi nella parola cristiana.
Molti elementi che emergono dalla vita della Chiesa come dal contesto sociale e dall’ambiente culturale nei quali tutti siamo immersi come pesci nell’acqua, sembrano indicarci che gli anni che ci stanno davanti chiederanno alle nostre comunità cristiane di far proprio un modo di essere e di vivere l’assemblea eucaristica domenicale con una consapevolezza nuova rispetto a quella che abbiamo avuto fino ad oggi.
Questa mia riflessione nasce dalla convinzione che il modo di celebrare di noi credenti nell’età secolare dica da sé quale Chiesa avremo scelto di essere nella società e nella cultura di oggi, a quale missione nel mondo ci sentiamo chiamati dal Signore e quale servizio l’umanità sembra oggi chiederci.
Nella bella lettera pastorale del vostro vescovo trovate una sapiente sintesi dell’essenziale della fede eucaristica della Chiesa, la mia riflessione non vi aggiunge nulla ma cerca semplicemente di declinare quel magistero nell’oggi della Chiesa. Nel primo punto del mio intervento cercherò di mostrare come il modo di celebrare è il modo di essere Chiesa nel mondo, e quello che attende la Chiesa sarà un celebrare da popolo messianico. Lo declinerò poi nelle tre componenti del popolo messianico:
– L’eucaristia atto di un popolo sacerdotale
– L’eucaristia atto di un popolo regale
– L’eucaristia atto di un popolo profetico
Il modo di celebrare è il modo di essere Chiesa nel mondo
In ogni epoca storica, l’assemblea liturgica ha assunto la forma corrispondente al modo di essere Chiesa in quel determinato tempo, così che il modo di celebrare ha sempre rispecchiato il modo di essere della Chiesa nel mondo. Nei primi secoli del cristianesimo, i credenti si riunivano nel giorno del Signore in comunità eucaristiche il più delle volte in modo clandestino, così che celebrare il dominucm valeva più della propria vita, come attestano i martiri di Abitene che confessano: “Senza l’eucaristia domenicale non possiamo vivere”. Questo è stato il loro modo di essere Chiesa e di celebrare da cristiani nel tempo delle persecuzioni. A partire dal IV secolo, riunirsi in assemblea liturgica e celebrare da cristiani in quelle basiliche dove in passato erano stati spesso giudicati e condannati a morte per la loro fede, significava essere finalmente una Chiesa libera, riconosciuta dall’autorità politica e beneficiaria di una visibilità sociale.
Nel regime di cristianità dell’età medioevale, l’assemblea liturgica è stata invece l’epifania di quelle gerarchie sociali del mondo che il cristianesimo aveva collaborato a creare e che si manifestava come sostanziale coincidenza tra ordine ecclesiale e ordine sociale, tra Chiesa e Regno. Nell’epoca barocca e tridentina, la conquistata autonomia del potere politico e del sapere scientifico dalla Chiesa, la centralità che il Rinascimento riconosceva all’essere umano, ha avuto come effetto l’irruzione nell’assemblea liturgica dell’individuo che ha segnato l’età moderna e la sua cultura. Il modo di essere assemblea e di celebrare certificava allora la frantumazione della comunità liturgica, la separazione tra sacerdote che celebra e fedeli che assistono come muti spettatori a vantaggio della devozione personale.
La riforma liturgica del Vaticano II ha fatto della ricomposizione del senso comunitario della liturgia e la partecipazione attiva dei fedeli la sua principale missione. Dal Concilio ad oggi, il modo di essere assemblea e di celebrare ho manifestato un popolo di Dio pellegrinante nella storia, in tutto partecipe delle gioie e delle speranze dell’umanità.
Se la natura comunitaria dell’assemblea liturgica è un cammino irreversibile che tuttavia domanda ancora molto impegno da parte nostra, sono personalmente convinto che il modo di celebrare da credenti nei decenni che ci stanno davanti domanderà alla comunità cristiana l’assunzione di una nuova consapevolezza e dunque di un ulteriore compito.
Se al cuore dell’età contemporanea il Vaticano II ha chiesto all’assemblea liturgica domenicale di crescere come popolo di Dio che celebra la sua fede al cuore del mondo, oggi, già ampiamente immersi nell’età secolare e agli albori dell’era post-cristiana verso la quale ci stiamo incamminando a grandi passi, alla comunità cristiana sarà chiesto di essere e di vivere l’assemblea eucaristica domenicale come popolo di Dio che prende fino in fondo coscienza della responsabilità di essere un popolo messianico. L’età post-cristiana rappresenta, a mio parere, una sfida per la vocazione messianica che il cristianesimo ha nel mondo. Per la Chiesa la missione non è un’optional di lusso ma fa corpo con la messianicità di Cristo e dunque della Chiesa stessa. Non è la Chiesa ad avere una missione, ma è la missione del Messia Gesù ad avere una Chiesa.
Se, come abbiamo visto, la comunità cristiana che siamo nella liturgia rivela quale Chiesa vogliamo essere nel mondo e la missione alla quale siamo chiamati, nel riflettere sull’eucaristia come atto del popolo messianico, non possiamo sottrarci al dovere di interpretare i messaggi che ci vengono dall’umanità di oggi, fatica immane ma mai vana che il Concilio indica sotto il nobile nome di discernimento dei segni dei tempi.
Per i decenni prossimi, in Italia e nei paesi dell’Europa occidentale, ciascuno certo con modalità diverse e caratteristiche proprie, per le comunità cristiane si annuncia una condizione di minoranza, che fin da oggi domanda a noi credenti e ai pastori di essere evangelicamente riconosciuta e accolta come un’opportunità, per essere insieme elaborata in maniera positiva. Questo significa viverla come una nuova possibilità di essere Chiesa secondo il Vangelo, e pertanto non un tempo di sventura da subire ma un kairòs, “un tempo opportuno” (2Cor 6,2) da vivere con tutte le sue fatiche e le sue contraddizioni, andandovi incontro non con amara rassegnazione ma con fiducia nel Signore. L’assunzione da parte di tutti, fedeli e pastori, di questa attitudine interiore di fede è l’atto germinale di una Chiesa che decide di essere in missione e non in dismissione, che rinuncia a chiudersi nell’autosufficienza per difendersi dal mondo.
A ben guardare, senza una lettura e un’interpretazione evangelica della realtà, un cristianesimo di minoranza e in stato di diaspora corre facilmente il rischio di diventare una setta ma, al contrario, può divenire anche un significativa comunità missionaria. Sta a noi scegliere un’esistenza settaria irrilevante, oppure diventare una significativa minoranza missionaria all’interno delle nostre società europee. Questo richiede un processo personale e comunitario di consapevolezza e di conversione: il futuro non appartiene a un cristianesimo che si riproduce da sé. Al contrario, il cristianesimo di oggi e di domani sarà un cristianesimo di scelta, un modo di essere comunità cristiana deciso consapevolmente e non subito passivamente. Questo intende papa Francesco quando nel primo capitolo di Evangelii Gaudium parla di “riconfigurazione missionaria della Chiesa”.
Ma cosa significa essere come Chiesa un popolo messianico? Non è certo qui il luogo e il momento per indagare la messianicità del popolo d’Israele, il significato dell’attesa del Messia nell’Antico come nel Nuovo Testamento e la figura di Gesù quale Messia, a noi basti riandare a quanto il Concilio, nella costituzione Lumen gentium, afferma della Chiesa come popolo messianico:
“Questo popolo messianico ha per capo Cristo … Ha per condizione la libertà e la dignità dei figli di Dio … Ha per legge il nuovo comandamento di amare come Cristo ci ha amati … Ha per fine il Regno di Dio … Il popolo messianico, anche se di fatto non comprende ancora la totalità degli uomini e appare spesso come un piccolo gregge, è però per l’intera umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per la comunione di vita, di carità e di verità, è assunto da lui anche come strumento della redenzione per tutti ed è inviato a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16)” (n. 9).
Essere come Chiesa un popolo messianico significa per il Concilio sapere assumere e non temere, quando le congiunture storiche lo creano e i tempi lo avverano, la condizione evangelica di pusillus grex, di “piccolo gregge” (Lc 12,32), ossia di una minoranza che vive una situazione di diaspora come sarà verosimilmente quella delle nostre Chiese negli anni che ci stanno davanti. Questo “piccolo gregge” è “per l’intera umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza”, a dire che il compito del popolo messianico non è anzitutto di fare qualcosa per il mondo ma di essere per il mondo un germe, per così dire un batterio, un embrione di unità, di speranza e di salvezza. Il popolo messianico è inoltre radunato da Cristo per essere non un’istituzione preoccupata di sopravvivere a sé stessa, ma uomini e donne che vivono una reale comunione di vita nella verità e nella carità: se il popolo messianico vivrà questo, il Signore lo farà suo “anche come strumento della redenzione per tutti” e lo invierà “a tutti gli uomini come luce del mondo e sale della terra”.
É celebrando l’eucaristia che, di fronte al Signore, la Chiesa si mostra consapevole del compito di essere testimone nel mondo dei doni messianici: l’unità, la verità, la libertà, la pace, la giustizia. Se da lei realmente vissuti, questi doni fanno della Chiesa il popolo messianico. Nelle intercessioni della Preghiera eucaristica V ci rivolgiamo al Signore pregando: “La tua Chiesa sia testimone viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo” (PE V/c). E ancora: “In un mondo lacerato da discordie, la tua Chiesa risplenda segno profetico di unità e di pace” (PE V/d). La comunità cristiana è dunque a favore dell’umanità intera un laboratorio di comunione, di unità e di pace.
Ecco cosa significa essere come Chiesa un popolo messianico, ecco il compito, anzi il dovere che comporta la missione affidataci da Cristo a servizio del mondo, con la coscienza, come scriveva già nel 1959 Henri De Lubac circa il futuro della Chiesa che “non si tratta di indovinare quello che sarà il futuro, ma di vedere quello che si impone nel presente. Non si tratta di calcolare le proprie chances, ma di pensare il proprio dovere”2.
In questa prospettiva entriamo ora in un discorso più direttamente liturgico, cercando di comprendere cosa comporta affermare, come ho fatto, che celebrare da cristiani nel nostro tempo significa assumere con maggiore consapevolezza la natura messianica della Chiesa. Lo faremo ancora alla luce della Lumen gentium, la quale declina biblicamente la natura del popolo messianico che è la Chiesa, nel suo essere popolo sacerdotale, popolo regale e popolo profetico.
L’eucaristia atto di un popolo sacerdotale
Il Concilio ricorda che “Cristo Signore … ha fatto del nuovo popolo di Dio un regno e dei sacerdoti per Dio suo Padre”. Come Israele, la Chiesa popolo messianico è in Cristo un popolo che nel suo insieme è sacerdotale che ha il compito di essere mediatore tra Dio e le genti attraverso il culto a Dio a favore dell’umanità intera e del cosmo. Come il Sommo sacerdote era il solo che entrava nel Santo dei santi per il perdono dei peccati di Israele, così la mediazione sacerdotale è svolta dalla Chiesa di Cristo attraverso il suo accesso diretto alla comunione intima con il Signore riconciliando il mondo con Dio.
Cosa significa oggi avere, come comunità cristiana, la coscienza di essere e celebrare come popolo sacerdotale ed avere un compito di mediazione tra Dio e il mondo ? Incamminandoci ormai a grandi passi verso un’epoca post-cristiana, l’abbiamo detto, come Chiesa stiamo prendendo atto, non senza dolore, della sempre più grande difficoltà del messaggio cristiano a raggiungere e ispirare la vita quotidiana degli uomini e delle donne nostri contemporanei, specie i più giovani. Difficoltà analizzate dai sociologi della religione in termini di “esculturazione della fede”3. Questo significa, come comunità cristiana, assistere al lento ma progressivo ridursi del numero di chi partecipa alle nostre assemblee eucaristiche domenicali; significa essere stati costretti già da qualche anno a ridisegnare l’assetto pastorale delle nostre parrocchie per la mancanza di presbiteri; significa costatare il venir meno forze e capacità per mantenere quelle attività e quei servizi che per anni si sono portate avanti con dedizione. Sebbene consapevoli che i criteri meramente quantitativi non possono bastare per giudicare la vitalità del cristianesimo, siamo nondimeno chiamati a vivere una vera e propria dimunutio Ecclesiae, non decisa e preparata da noi ma impostaci dai profondi mutamenti in atto ad ogni livello del vivere umano.
Questa diminutio ci impone con forza e urgenza, talvolta anche contro la nostra volontà, di interrogarci su cosa davvero è il proprium del cristianesimo ed è essenziale alla vita dalla Chiesa. Ma ancora di più, a domandarci qual è la verità profonda della Chiesa, ciò che è irrinunciabile perché la Chiesa sia Chiesa e non altro.
Diversamente da quello che potremmo pensare, la risposta a questa domanda la stiamo già dando, ma non attraverso un’idea ma un fare, non con un concetto ma con una prassi. Quando una comunità cristiana, domenica dopo domenica, si riunisce per celebrare l’eucaristia essa, anche senza averne sempre la piena consapevolezza, realizza e manifesta la natura sacramentale della Chiesa, dicendo ciò che la Chiesa è nella sua verità profonda, che Lumen gentium così formula: “a Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (n. 1). In altri parole, la verità della Chiesa non è mai riducibile alle molteplici attività e iniziative, ai suoi servizi sociali a favore degli ultimi, alla sua presenza culturale o al suo impegno a favore della polis.
La Chiesa svela al mondo la sua verità, dice chi essa è radunandosi ogni domenica per celebrare il memoriale della Pasqua del Signore, ascoltando il Vangelo e spezzando il pane. Affermare la verità sacramentale della Chiesa significa rimarcare che essa, come Corpo di Cristo, ha le sue radici impiantate nel mistero pasquale di Cristo da cui attinge la sua vita e dal quale, come a Pentecoste, riceve lo Spirito santo che la costituisce e, inviandola in missione, la obbliga a decentrasi continuamente da sé stessa e non essere imprigionata dalle proprie paure.
Se anche un giorno in Occidente la Chiesa fosse posta nelle condizioni di non fare altro se non radunarsi alla domenica per celebrare l’eucaristia, essa farebbe comunque l’essenziale, ciò che è davvero irrinunciabile per essere e vivere come Chiesa di Cristo: comunicare al mistero della fede, che la stessa assemblea liturgica confessa nell’acclamazione anamnestica: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.
Questa è la Chiesa nel suo atto nativo e generativo, la Chiesa simpliciter, semplicemente Chiesa come la definisce Giuseppe Dossetti quando scrive: “L’assemblea eucaristica, la Chiesa riunita per la celebrazione dell’eucaristia, cioè per la celebrazione del mistero pasquale, è veramente la Chiesa simpliciter, la Chiesa nel suo atto più puro, più completo; è la Chiesa che ricapitola tutti gli altri elementi, tutte le altre finalità, tutte le altre sue funzioni e attività in quell’atto e da quell’atto trae il suo essere più profondo e anche il modello più tipico e più caratterizzante della sua stessa struttura”4.
La secolarizzazione porta la Chiesa ha comprendere che la sua originaria missione del mondo è quella di essere Corpo di Cristo, ciò che l’eucaristia fa di lei. Il radunarsi come fratelli e sorelle senza alcuna distinzione sociale, livello di istruzione, appartenenza politica, senza giudizi morali o pregiudizi culturali, ma uniti unicamente dall’amore congregante per il Signore, come l’antico inno ci fa cantare: “Congrevait nos in unum Christi amor”.
Accogliere e condividere il perdono di Dio, porsi come comunità all’ascolto comune del Vangelo, lasciandosi giudicare e convertire, e nutrire e consolare dalla parola del Signore. Portando all’altare il frutto della terra e del lavoro affinché lo Spirito santo lo trasfiguri e diventi per noi “cibo e bevanda di salvezza”. Comunicare all’unico pane per formare un solo corpo.
In un mondo sempre più senza Dio, nell’eucaristica domenicale la comunità cristiana diventa ciò che è il Corpo di Cristo, e questo essere in Cristo è il suo atto di popolo sacerdotale e lo è a favore dell’umanità intera.
L’eucaristia atto di un popolo regale
Al popolo messianico, oltre ad essere popolo sacerdotale, spetta anche la funzione regale propria del Messia: portare pace e giustizia tra gli uomini, difendere il debole, l’oppresso, il senza dignità. Questa è una responsabilità messianica che i cristiani sono chiamati ad esercitare nel modo con il quale il Cristo l’ha esercitata. La regalità del Messia crocifisso, di un uomo che da dato la sua vita per la salvezza del mondo.
Celebrare da cristiani in una società secolare, spezzare il pane domenica dopo domenica come popolo regale, significa essere consapevoli forse più di quanto lo siamo stati fin’ora, che l’eucaristia custodisce il disegno di Dio sul mondo, porta in sé un messaggio sulla convivenza umana, segnata dai doni messianici che sono pace, giustizia, libertà, fraternità. Così, se la società post-cristiana si estranea sempre più dal cristianesimo, il cristianesimo non potrà mai invece rendersi estraneo alla società qualunque atteggiamento essa abbia nei suoi confronti e qualsivoglia fase storica essa attraversi. Per questo, il rapporto della comunità eucaristica col futuro del mondo non è accessorio ma costitutivo, per la semplice ragione che l’eucaristia non è un mero rito religioso ma come atto maggiore di un popolo messianico e regale porta in sé un progetto che coincide con il destino del mondo.
Noi cristiani come popolo messianico non siamo dunque un popolo di devoti ma un popolo di sacerdoti, re e profeti, ossia di uomini e donne che quando nel giorno del Signore entriamo nelle nostre chiese e ci radunano in assemblea eucaristica non ci estraniano dalla realtà del mondo ma, al contrario, davanti al Signore preghiamo e intercediamo per tutti gli uomini, rinnovando la nostra responsabilità nei confronti del presente e del futuro del mondo. Come è sempre avvenuto nella storia, anche nei decenni che ci stanno davanti l’assemblea eucaristica sarà il segno più eloquente del modo in cui come Chiesa faremo obbedienza al comando evangelico di essere “nel mondo ma non del mondo”. Se in questa parola del quarto Vangelo, Gesù ci comanda di non appartenere al mondo facendo nostra la logica mondana, ci indica tuttavia il dovere di essere “nel mondo”, cioè essere all’interno e non accanto per vivere una vita a parte e per condurre un cammino parallelo.
Essere nella storia e non vivere fuori dal tempo. Questo significa che come il presente anche il futuro della Chiesa è lo stesso futuro del mondo. L‘unità alla quale il Corpo di Cristo tende non è in alternativa all’unità del genere umano voltando le spalle al comune cammino dell’umanità. La comunione della Chiesa è segno di quella comunione alla quale anche l’umanità anela anche, anzi soprattutto in mezzo a tensioni, divisioni, guerre e conflitti.
Permettetemi un’ultima osservazione. In questa particolare congiuntura storica e sociale nella quale viviamo, sono convinto che celebrare ogni domenica da cristiani rispondendo al compito e al dovere di essere un popolo messianico e regale, significhi comprendere che la celebrazione eucaristica è il luogo della fraternità chiamata a diventare solidarietà, dove i bisognosi sono i primi nella considerazione e nella carità di noi cristiani. Sì, l’eucaristia è il più alto magistero di umanità, perché nella frazione del pane c’è racchiuso un realismo umano altissimo, quel realismo che ci ricorda che non possiamo ricevere in modo innocente il pane di vita senza condividere il pane per la vita con chi è nel bisogno.
Tutta l’umanità racchiusa nel gesto di spezzare il pane e donarlo, svela al tempo stesso tutta la disumanità del gesto non compiuto e dunque del rifiuto di spezzare il pane e condividerlo con chi e affamato.
Non possiamo non riconoscere come in questi ultimi anni fino a i fatti più recenti, la Chiesa che è in Italia di fronte al fenomeno della migrazione, ha mostrato di essere cosciente che celebrare con consapevolezza l’eucaristia ogni domenica altro non significa che prendere coscienza e tradurre nei fatti che la nostra fede eucaristica ci chiama ad assumere una responsabilità eucaristica, a vivere un’etica eucaristica che consiste in una rinnovata forma di solidarietà, di fraternità e dunque di un’umanità più profonda nei confronti dei bisognosi. Non possiamo celebrare come credenti ogni domenica l’eucaristia e pensare di poter giustificare e tanto meno approvare atti di vera e propria disumanità verso i migranti che muoiono di fame e di sete non solo di pane e di acqua ma di riconoscimento della propria dignità umana.
La nostra eucaristia è una richiesta nel mondo a favore dell’accoglienza e dell’integrazione delle etnie e dei popoli, una protesta contro l’enorme fossato di disuguaglianza che oggi polarizza le nostre società, una chiamata ineludibile all’ospitalità e alla convivialità contro ogni esclusione, segregazione ed emarginazione, un invito senza condizioni alla tavola dei popoli. Affermando con parresia evangelica questo, la Chiesa italiana esperimenta oggi l’anomala situazione di essere profetica non solo nei confronti della società italiana ed europea ma, cosa del tutto inedita, di essere profezia anche al suo interno, anche nei confronti dei suoi stessi fedeli, di un certo numero di coloro che formano le assemblee eucaristiche domenicali. Ma non è possibile essere umani quando celebriamo i riti ed essere disumani quando usciamo da chiesa5.
Ecco il senso che vi trovo nel dire che eucaristia è l’atto di un popolo regale, ossia che si fa responsabile della qualità pienamente umana della convivenza.
L’eucaristia atto di un popolo profetico
La Chiesa, nuovo popolo messianico è anche un popolo di profeti che ha ricevuto dal Signore risorto il compito di annunciare al mondo il Vangelo con il comando: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15). Consapevoli che la profezia del Vangelo è la forma suprema della partecipazione dei cristiani alla condizione umana.
Celebrare da credenti nell’età secolare significa anche comprendere in modo nuovo che elemento costitutivo del celebrare cristiano è anche il comando, il mandato con il quale ogni celebrazione eucaristica termina: “Andate in pace”. A questo mandato l’assemblea risponde dicendo: “Rendiamo grazie a Dio”. Certo, questa acclamazione è la sintesi dell’atto compito, l’eucaristia, ma possiamo anche interpretarla come la risposta nella forma del rendimento di grazie per il mandato ricevuto di andare. É eucaristico anche l’atto di sciogliersi come assemblea e di andare verso gli altri. Com’è stata convocata alla presenza del Signore, allo stesso modo l’assemblea liturgica è inviata in missione.
L’opposto dell’andare è rimanere, stare, che è l’esplicita richiesta che Pietro rivolge a Gesù al termine della sua trasfigurazione sul monte: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre tende …” (Mc 9,4). Ecco la ragione per la quale bisogna resistere a quello che Michel de Certeau, in una meditazione sulla trasfigurazione, ha indicato come la “tentazione spirituale”, tentazione dello stare, che significa stare fermi, non muoversi, fissarsi nella condizione in cui ci si trova. Di fronte a un mondo sempre più scristianizzato, nel quale come Chiesa costatiamo come sia mille volte meglio l’incredulità che l’indifferenza, la comunità eucaristica può essere tentata di fermarsi nello spazio della contemplazione quale è la liturgia.
“Come – osserva de Certeau – nella trasfigurazione evangelica considerare la ‘visione’ come una ‘tenda’ e la parola come una nuova terra”6.
Celebrare da cristiani in una società secolare significa anche riconoscere nell’ultima parola rivolta alla comunità eucaristica, “andate …”, la memoria iscritta dalla Chiesa stessa nella sua liturgia che il cristianesimo non è una realtà statica, non è né un sistema né un’idea, ma un incontro, una storia, esattamente un andare, ossia una dinamica che non si lascia immobilizzare. L’assemblea liturgica che obbedisce al mandato “andate” è segno e al tempo stesso epifania di quella figura di Chiesa che papa Francesco ci ha insegnato a riconoscere come “Chiesa in uscita”, cifra del suo magistero ecclesiale. Nel discorso al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze nel novembre del 2015, il papa si è rivolto così alla Chiesa italiana: “L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti”7.
Tra i diversi significati che possiamo cogliere nel vero e proprio atto liturgico dello sciogliersi dell’assemblea eucaristia, figura sacramentale di una Chiesa in uscita, ne evidenzio uno che mi sembra in relazione a un tratto tipico della cultura contemporanea. La Chiesa può avere oggi una parola profetica perché evangelica, in risposta all’individualismo dominante, a ogni possibile forma di autosufficienza, di isolazionismo personale come comunitario e collettivo. L’invio liturgico “andate” con il quale l’assemblea eucaristia si disperde e va verso gli altri è la figura di un cristianesimo caratterizzato da un bisogno dell’altro, da una consapevole incompletezza.
L’eucaristia nutre la Chiesa senza saturarla ma, al contrario facendo nascere la fame e la sete dell’incontro. Se l’eucaristia fa della Chiesa il corpo di Cristo la cui carne è la comunione, esattamente in quanto corpo la Chiesa è desiderio di incontro, di relazione, di ascolto, di dialogo. Perché – come ricorda l’apostolo Paolo – il senso dell’unico pane è quello di creare un unico corpo, ma non solo tra di noi ma in vista di essere un solo corpo con l’umanità intera, fino a raggiungere una comunione cosmica che sarà piena e visibile solo nell’escathon, nell’ultimo giorno.
Se nella liturgia la comunità cristiana ha ricevuto dal Signore l’eucaristia come un dono, essa si è riconosciuta come bisognosa,rinunciando ad ogni forma di autosufficienza. La logica eucaristia è l’esatto contrario di una logica individualistica ed egemonica. Essere consapevoli del significato che ha il comando “andate …” posto al termine della liturgia, significa riconoscere da parte della Chiesa che vi è una dimensione di mancanza costitutiva del cristianesimo. La Chiesa, certo, ha da dare all’umanità una parola di vita e di salvezza ma anche l’umanità laica e non credente ha da insegnare alla Chiesa dei valori umanamente altissimi e lastoria dimostra quanto e come ciò sia avvenuto.
L’assemblea si scioglie come segno che il cristianesimo non è un monolite ma ricerca costantemente il dialogo con ogni forma di sapienza umana, con i non credenti, con le culture dei popoli, con le altre religioni, perché sa di ricevere ciò di cui è mancante e non si limita a cerca nell’altro la conferma di ciò che già possiede. La mancanza cristiana costitutiva è quella che si può esprimere come “universale bisogno dell’altro”.
Permettetemi un’ultima annotazione sul congedo, “andate”. A ben guardare, il comando che la comunità dei credenti riceve non è “tornate in pace”, ma “andate in pace”; dunque non è un tornare ma di andare, come fosse ogni volta la prima volta, come si trattasse di trovare nuove strade e percorrere cammini sconosciuti, ma soprattutto come se si trattasse di iniziare.
Il filosofo ebraico Franz Rosenzweig, uno dei massimi pensatori del XX secolo, osserva che il cristianesimo ha fatto un cambiamento più profondo di quanto lui stesso si sia reso conto, quando per distinguersi dall’ebraismo ha posticipato la sua festa dal settimo al primo giorno della settimana. Se nel riposo sabbatico l’ebreo celebra il riposo di Dio nel settimo giorno a conclusione del lavoro fatto nei sei giorni della creazione, la domenica è “la festa dell’inizio” nella quale il cristiano accumula le energie per la settimana che gli sta davanti. E Rosenzweig commenta: “Il cristiano è in eterno un uomo che comincia; compiere e terminare non è affar suo: se l’inizio è buono tutto è buono. Questa è l’eterna giovinezza del cristiano; davvero ogni cristiano vive ancora oggi il suo cristianesimo come se fosse il primo cristiano”8.
Ecco – e concludo – cosa significa vivere il gesto della celebrazione eucaristica domenica dopo domenica, significa assumere fino in fondo la consapevolezza di essere un popolo messianico. Un popolo di sacerdoti, re e profeti che rinnovando la fede nel Signore Gesù e la passione per il suo Vangelo non hanno paura di essere in cammino verso una società postcristiana, perché sono abitati dalla certezza che questa non è la fine del cristianesimo ma l’esaurirsi di una forma storica del cristianesimo.
Celebrare oggi da cristiani nell’età secolare significa allora celebrare non una fine ma un inizio, celebrare con Rosenzweig “l’eterna giovinezza del cristiano” chiamato a vivere oggi il suo cristianesimo “come se fosse il primo cristiano”.
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1 S. Kierkegaard, Esercizi di cristianesimo, Piemme, Casale Monferrato 2000.
2 H. De Lubac, Paradossi e nuovi paradossi, Jaca Book, Milano 1989.
3 D. Hervieu-Léger, Catholicisme: la fin d’un monde, Bayard, Paris, 2003.
4 G. Dossetti, Per una «Chiesa eucaristica». Rilettura della portata dottrinale della costituzione liturgica del Vaticano II. Lezioni del 1965, a cura di G. Alberigo – G. Ruggieri, Il Mulino, Bologna 2002, p. 70.
5 Per un approfondimento di questo tema si veda G. Boselli, Il senso umano della liturgia, (Sentieri di senso 58), Qiqajon, Magnano 2019.
6 M. de Certeau, Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Città aperta edizioni, Troina, 2006, p. 277.
7 Francesco, Il nuovo umanesimo in Gesù Cristo, in “Sognate anche voi questa Chiesa”, Sussidio a cura della Segreteria Generale della CEI all’indomani del 5° Convegno ecclesiale nazionale (Firenze, 9-13 novembre 2015), p. 11.
8 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 368.