Noi siamo corpo. Nasciamo dal corpo di nostra madre e, prima ancora, dall’incontro di due corpi. È attraverso il corpo, con la sapienza dei sensi e i suoi confini, che impariamo a relazionare con l’altro per raggiungerlo con un abbraccio, un sorriso, per ascoltarlo, respingerlo o accoglierlo.
La vita biologica, come quella relazionale, nasce dall’incontro di corpi. Questo paradigma, tuttavia, è messo in discussione dai mutamenti epocali legati alla percezione del corpo quale assoluto protagonista della nostra cultura. Sottratto alle maglie della morale, dove era schiavo, attraverso un processo di emancipazione, si è liberato fino a trasformarsi in tiranno. La sana riconquista di una consapevolezza del corpo è stata a tal punto enfatizzata da trasformare il corpo nel Signore delle nostre vite: un idolo da gratificare e adorare, con tanto di liturgie predisposte allo scopo. E come per ogni divinità che si rispetti, il corpo dovrà apparire come “l’essere perfettissimo”; ed avere i suoi santuari e i suoi riti religiosi, tutti all’insegna del benessere e della comodità, i cui ingredienti sono diete, moda, palestre, chirurgia estetica e selfie in quantità. Nasce il mito del corpo immortale, eternamente giovane.
Il recupero della corporeità – la cui verità è affermata dal Dio di Gesù Cristo percepito come attestato dalla Scrittura – mostra un esito degenerato; è stato geneticamente modificato nella società del mercato e dello spettacolo. L’inganno del corpo idolatrato è che esso non è più parte di noi.
Posto sul piedistallo dell’esposizione mediatica, sociale, mondana, smette di essere ascoltato nei suoi bisogni più profondi, diventa oggetto da scolpire per adeguarlo a modelli imposti dalla culturaambiente, per rispondere a bisogni indotti. Siamo disposti a modificarne le geografie con diete
drastiche, fino a ricorrere alla mutilazione chirurgica. I corpi quotidiani, normali, non trovano udienza. Le imperfezioni e la vecchiaia sono vergogne sociali non molto distanti da quelle arcaiche che, nell’antico Israele, impedivano agli zoppi, ai ciechi e ai sordi di accedere al Regno. Quale Cristo si leverà oggi per liberare i corpi fragili, malati, imperfetti dalla vergogna sociale? Chi libererà i corpi scolpiti, resi oggetto sessuale, ridotti a merce? Parallelamente, assistiamo al fenomeno inverso: la comunicazione virtuale ha scorporizzato le relazioni portandoci a inedite riproposizioni dei dualismi che tanto hanno ferito i corpi.
Di fronte a questo disorientamento, andiamo al corpo della fede, il corpo delle Scritture, un corpo con tante membra: diverse parti e tutte necessarie per una lettura unitaria. Anche qui troviamo un corpo ferito, dilaniato, sottoposto a facili dualismi: antico testamento contro nuovo, il dio di Gesù contro quello di Mosè. Le Scritture ci raccontano che siamo stati creati da Dio come corpi. È attraverso il corpo che si esprime quella differenza che, nella relazione, ci permette di rispecchiarci nel divino («Facciamo la creatura umana a nostra immagine… maschio e femmina li creò»). E i corpi non sono un peso, un carcere per l’anima. Differenziati per genere, essi sono “molto buoni”.
Necessari per strappare l’umano alla solitudine autoreferenziale e aprirlo al rapporto con un tu, al confronto e al dialogo, immagine del divino in noi […].
Che cosa si perde quando si subordina il corpo all’anima, lo spirituale al materiale? Si perde, prima di tutto, la fede biblica. Si costruisce una narrazione lontana dall’orizzonte delle Scritture ebraico cristiane. La creatura umana nell’antropologia biblica può vivere solo nella piena unità tra corpo e anima. Si pensi solo ai termini con cui si allude a quello che comunemente chiamiamo anima: nella Bibbia sono tutt’altro che astratti, incorporei; rimandano al corpo, alla gola, alla voce, al respiro, anima è fiato che esce ed entra dalla gola. Anima è suono di una voce che non può fare a meno della cassa di risonanza del corpo. L’anima, intesa come fiato, respiro, voce, rimanda alla natura comunicativa della creatura umana, nel medesimo orizzonte relazionale del corpo sessuato. Noi, che abbiamo sostato a lungo ad Atene, associamo l’essenza della vita a quell’elemento incorporeo che chiamiamo anima. La Bibbia, invece, lo identifica nel sangue. La vita, nell’antropologia biblica, è ‘carne e sangue’: siamo ben lontani da quell’immaginario religioso che s’interessa solo delle anime.
Le Scritture ebraico-cristiane mettono in scena corpi, uomini e donne che vivono nella storia.
Persone concrete, a cui Dio affida il suo sogno: quello di custodire e coltivare il mondo come un giardino. E, di fatto, persone che preferiscono usarlo unicamente a proprio vantaggio. La Bibbia è un racconto realistico, che affronta le fatiche del vivere, i conflitti umani, le speranze insieme alle derive. Ed è proprio nel bel mezzo di un conflitto che compare per la prima volta il riferimento al sangue, quando una vita viene spezzata e il sangue sparso. Non è l’anima di Abele che grida dalla terra, ma il suo sangue, anzi, i suoi sangui, al plurale perché chi uccide una vita uccide anche tutte le potenzialità di vita in essa racchiuse e le generazioni future che più non saranno. Per la Bibbia, dunque, “sangue” significa “vita”: vita che vuole essere vissuta e che troppo spesso viene invece distrutta. Con grande realismo la Scrittura parla di una storia dissanguata, piena di incidenti e di conflitti che tolgono la vita. E allo stesso tempo racconta di un Dio che desidera vita per l’umanità intera. Un Dio che, a differenza di come lo descrive l’immaginario religioso di sempre, non chiede il sangue degli esseri umani, non esige il sacrificio delle loro vite; al contrario, è Lui a sacrificarsi per l’umanità, a dare la vita per noi. E per esprimere questa rivoluzione copernicana dell’immagine di Dio la Bibbia cristiana racconta di Gesù, il Figlio di Dio che, non solo ha un corpo come tutti gli umani, ma arriva a dare il suo sangue per la moltitudine. A noi suonano strane queste parole: le associamo ad un incomprensibile prezzo pagato per liberarci (non si sa come…) dai peccati. Ma nei Vangeli il senso del gesto di Gesù è chiaro: versare il sangue significa dare la vita. Perché il sangue è vita, e tutta la Bibbia testimonia di un Dio che vuole per ogni vivente «vita, e vita piena, in abbondanza » (Gv 10,10), non dilaniata in dualismi dolorosi. Quel Dio che, in Gesù, si fa corpo divenendo umano come noi, ci salva, prima di tutto sanando i corpi. Un Dio medico tra la gente, che tocca, ascolta, chiama e guarisce. Ridona dignità prima di tutto attraverso i corpi risanati. Non guarisce tutte le infermità ma, attraverso le tante guarigioni operate, ristabilisce, simbolicamente, l’unità della persona. Salvezza e salute hanno, non a caso, la stessa radice. Anche la salvezza ultima, attesa con la risurrezione, non ha a che vedere con l’immortalità dell’anima e la distruzione dei corpi, ma con i corpi risollevati, risorti. Un linguaggio simbolico che ci richiama alla necessità di recuperare uno sguardo unitario e dunque mistico sull’intera nostra esistenza.
di Lidia Maggi
in “Avvenire” del 13 ottobre 2019