Ultimamente si sono susseguiti vari casi di richiesta eutanasica e di suicidio assistito. L’utilitarismo edonista avalla queste “scelte”, soffocando la voce del sofferente. E la Bioetica sembra venire meno alla domanda di senso insita nelle sue questioni più delicate. Ancora una volta, la questione è profondamente antropologica.
Il dolore è insito nell’identità stessa dell’uomo. E l’umanità, provata, si cimenta con esso abbozzando risposte: ora lo sublima, ora lo subisce, ora lo percepisce come ineluttabilità. L’esperienza greca si configura come pathos, che è insieme empatia e compassione. La reazione del greco di fronte al dolore è immedesimazione immediata col soffrire, quasi nel senso materiale dell’esser preso dalla pena. Secondo Kierkegaard, «nella tragedia antica la pena è più profonda, minore il dolore; nella tragedia moderna il dolore è più grande, minore la pena» (S.Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno).
Il dolore è qualcosa che si prova e che, al tempo stesso, mette alla prova. Ed è proprio l’elemento probatorio a condurre alla domanda stessa di senso e, dunque, all’elemento esistenziale: undemalum? In questa domanda cruciale, poi, si colloca la scoperta di unione di tutto il genere umano: il dolore è veramente il ponte tra l’individuale e l’universale. Se è vero, però, che nel dolore l’uomo è pienamente umano e riscopre la sua unità con l’umanità degli altri uomini, è altrettanto vero che uno dei tratti più sconvolgenti della sofferenza è dato dal fatto che essa traccia un vero e proprio solco di divisione intorno a chi soffre. La via del dolore consente all’uomo di rientrare in se stesso scoprendo la sua peculiarità individuale, per il fatto stesso che nessuno potrà sostituirsi a lui nel suo dolore.
In una società che ci vuole, per motivi di mercato, felici “per forza” e per aiutarci a ricercare la felicità trasforma tutto in merce, da vendere e da acquistare, compreso il benessere psico/fisico (Z. Bauman, Consumo, dunque sono), la sofferenza non è permessa. La sofferenza implica fragilità e debolezza. Ma noi dobbiamo essere belli, forti e sani, di una salute che è “completo benessere psico-fisico”. La sofferenza implica tempo per curarsi, riflettere, ricominciare. Ma noi non possiamo fermarci, noi dobbiamo correre, abbiamo fretta di incastrare tutto con ritmi da capogiro perchè non possiamo, non dobbiamo rinunciare a nulla. In altre parole, vietato stare male, vietato andare in crisi, vietata ogni imperfezione.
E se succede? Se mi chiedi aiuto, saprò sentire il tuo grido mentre corro o mentre mi arrovello nel mio perfezionismo? No. E se lo sentirò, metterò dei tappi, o delle cuffie come i giovani (indicativo che rigettino a tal punto il silenzio da non avere mai le orecchie “libere”) perché il tuo dolore darà voce anche al mio.
Una ragazza qualche settimana fa ha espresso la sua volontà di uccidersi asetticamente in Belgio: Kelly, se si guarda allo specchio, non si piace (http://www.ilgiornale.it/news/mondo/kelly-che-vuole-eutanasia-perch-non-si-sente-bella-1769565.html). Evidentemente, la situazione di Kelly è più complessa di come ci è stata presentata. Tuttavia, nel sistema a cui stiamo facendo riferimento, la volontà suicidaria di Kelly potrebbe essere giustificata da come lei giudica la qualità della sua vita: se non sto bene con me stessa, allora non serve vivere.
Può essere questo un criterio che decide della vita o della morte di una persona? È davvero libero chi “sceglie” di procurarsi la morte? Si vive solo finché la vita “serve” a qualcosa o a qualcuno?
Questa visione centripeta, dove tutto ruota attorno alla contingenza dell’utile e alla cecità del piacere come estremo rifiuto della sofferenza, senza limiti, ma soprattutto senza criteri di senso, oltre che senza rispetto per le conseguenze sulla salute del singolo e della collettività tramuta la persona da soggetto a oggetto e oggetto utile a oggetto non più utile, travestita da “libertà”. Interessante notare che in polacco il verbo “uzjwac” traduce entrambi i nostri “usare” e “godere”. E, in effetti, i due concetti sono strettamente connessi: è quello che chiamiamo utilitarismo edonista.
È importante provare a comprendere più a fondo questo concetto, emblematico per l’impostazione Bioetica di stampo «laico». Certamente, all’idea di «qualità della vita» molto ha contribuito la nuova definizione di salute del 1948 già citata. Bisogna, però, considerare che le origini della nozione sono essenzialmente di stampo utilitaristico: l’intento è quello di misurare con parametri oggettivi i fattori di benessere, in modo da poterne calcolare i risultati; è, potremmo dire, il risultato dell’interazione tra un’etica deontologica basata sul rispetto dell’autodeterminazione e un’etica utilitaristica del benessere collettivo.
Il più lampante paradosso di questo sistema presentato come massima espressione della libertà come autodeterminazione è l’approccio essenzialmente paternalistico. Infatti, chi decide della qualità della vita? Il singolo? Lo Stato? Chi è il garante della “bontà” di questa decisione tanto da autorizzare la procedura secondo gli standard legali?
Già si intravede che ancora una volta il problema a monte è di tipo prettamente antropologico, tanto che in questo sistema la “libertà”si collocherebbe nel fatto che, non tollerando niente che sia ricevuto e non autofondato, la decisione riguardante «chi decide»consiste nell’autoproclamazione degli agenti morali alla dignità di «persone». Dunque, chi appartiene al club delle persone? L’essere persona «non può identificarsi con l’avere una vita degna di essere vissuta, ma solo con la capacità di misurare e giudicare la qualità della vita. La persona è in qualche modo “distaccata” dalla vita, è un soggetto che “gestisce” una vita. La vita è vista, quindi, in un’ottica strumentale, è qualcosa che serve per raggiungere altri beni. «La vita degli individui può essere concepita come un recipiente che può contenere liquidi dolci (valori positivi) o liquidi amari (valori negativi). Di per sé tale recipiente non ha alcun valore, ma lo assume sulla base del valore del liquido che esso contiene» (P. Singer, Animals and the value of life). Va da sé che questo esempio portato all’estremo dell’utilitarismo edonistico porta a dire che trattasi di recipienti tranquillamente sostituibili.
Capiamo allora che quando la Bioetica riflette sulla liceità o meno del suicidio assistito (così come su tutti gli altri temi classici di questa disciplina, aborto..) ha a che fare in realtà con la ricerca di una risposta relativa all’esperienza quotidiana della sofferenza, del dolore e della morte. La questione alla radice delle problematiche bioetiche è, infatti, quella di senso; ed è forse proprio per sfuggire a tale angosciante domanda che l’uomo cerca di assicurarsi un controllo completo sulla vita attraverso la pretesa di assoluta libertà illudendosi di avere potere su di essa, ricalcando l’antico sogno di autofabbricarsi.
Ma la ricerca di senso di fronte al dolore e alla morte è prima ancora una domanda esistenziale: chi sono? Chi sei? In fondo, un essere umano si procura la morte perché non riesce a considerare se stesso per ciò che è e dunque a riconoscere in sè quel valore, quella preziosità del suo essere persona.
Infatti, il valore dell’uomo dipende non dal fatto che egli è vivo, perché di questo sarebbe titolare anche un animale, ma per il fatto che egli è una persona. E la vita di una persona ha questo valore inalienabile a partire da un’antropologia teologica cristocentrica, per cui il bene della vita umana può essere precisato nell’articolazione delle sue dimensioni fondamentali, evitando deprezzamenti materialistici o indebite sacralizzazioni:
La vita terrena è nello stesso tempo relativa e sacra: non è il bene supremo a cui tutto sacrificare o da preservare a ogni costo; non è nemmeno un bene strumentale a nostra completa disposizione. Di essa è padrone assoluto solo il Creatore, cui solo spetta la scelta di darle un termine, perché a lui si deve l’iniziativa di averle dato origine. L’uomo non ha verso di essa “una signoria assoluta, ma ministeriale”, riflesso della signoria unica e infinita di Dio (Evangelium Vitae, n.52).
Questo è il punto: le questioni di cui si occupa la Bioetica, che racchiudono quella domanda di senso della sofferenza, come scrive Joseph Ratzinger riguardano sempre un uomo (lo scienziato ricercatore o il medico) posto davanti a un altro uomo che egli è tentato di non considerare e di non trattare come una persona (J. Ratzinger, La Bioetica nella prospettiva cristiana).
L’uomo, infatti, è sempre tentato da una forma di utilitarismo. Del resto, se egli da solo deve garantirsi la sua esistenza e il suo futuro, non può essere completamente disinteressato, l’altro gli apparirà sempre in qualche modo come un mezzo per la sua felicità, un mezzo per sé, per garantirsi la sua esistenza. Questi saranno gli occhiali con cui guarderà il suo simile, ma anche se stesso, incapace ormai di riconoscersi. E in un continuo palleggio tra individuo e società, anche la società stessa comincerà a chiedersi chi le serve e chi no, oppure chi supererà i costi rispetto agli utili. Così, come nel film “The giver” comincerà a “congedare” gli anziani con l’eutanasia, aprirà nuove strade che conducano ad un moderno Taigeto da cui buttare neonati disabili con l’aborto post nascita, imbavaglierà chi “sceglie” il suicidio come un ultimo grido disperato di un bambino, che pur di ricevere attenzioni da un genitore anaffettivo ed evitante è disposto a riceverne di negative come forma di considerazione.
Interessante notare, invece, che, salvo la visione personalista, nelle impostazioni bioetiche che in qualche modo abbracciano la visione utilitarista o edonista la risposta alla domanda esistenziale del sofferente “Non ce la faccio più: è giusto che io viva?” è cancellarla con la morte: che si chiami aborto, eutanasia, suicidio assistito, la scelta proposta sembra non essere mai l’accoglienza della sofferenza, del limite, della malattia, dell’imperfezione, ma una mega “aspirina” chiamata “libertà” che cancella finchè può il sintomo con l’alienazione (si pensi a tutte le forme possibili di dipendenza da sostanze e non) o cancellando chi detiene quel sintomo. Si tratta di una cecità del luogo dove origina la domanda stessa di senso che l’uomo ha dentro di sé, che è al tempo stesso domanda di verità su di sé e sul mondo, domanda su Dio.
Come afferma Evangelium Vitae, «la scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in pienezza il suo significato religioso e morale quando scaturisce, viene plasmata ed è alimentata dalla fede in Cristo. Nulla aiuta ad affrontare positivamente il conflitto tra la morte e la vita, nel quale siamo immersi, come la fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10)».
Novembre 4th, 2019
Oltre l’utile e il dilettevole. La Bioetica di fronte all’urlo inascoltato del sofferente