La vicenda dell’ex-Ilva con i suoi ultimi sviluppi ha fatto e sta facendo il giro del mondo, è un grosso cartello per gli investitori stranieri, che consiglia loro di stare alla larga dal nostro Paese. Ci vorranno decenni di buone politiche per cancellare questo messaggio, un connotato di fondo del Paese che mina la credibilità a livello internazionale. Che credibilità può avere un Paese il cui Governo aveva costruito un provvedimento confermato da Pd E 5s con Di Maio al Mise e poi cancellato da entrambi. Siamo davanti ad atteggiamenti schizofrenici dettati da piccolo cabotaggio fatto di contese e scaramucce interne ai partiti in cui l’interesse del Paese passa in secondo piano.
Un atteggiamento anti-industriale che viene da lontano. Come sindacato industriale abbiamo sottovalutato in passato la questione ambientale, anche se la sensibilità per l’ambiente era sicuramente diversa da quella che abbiamo oggi. Ma le vere responsabilità riguardano i vari ministri dell’Ambiente e della Salute, i governatori della Regione Puglia, Istituzioni locali e magistrati, che in troppi casi oscillano tra il credere che basti apporre cartelli di divieto o fare un ricorso o dare mano libera alle imprese. E che litigano sui dati Arpa e Ispra quando non confermano le loro tesi.
L’ex-Ilva è stata, ed è ancora di più oggi, lo specchio di un paese in guerra con sé stesso. La metalmeccanica pesa per il 52% del nostro export, cioè la ricchezza che tiene in piedi il paese, ma la politica sembra essere inconsapevole di questo. Manca una comunità di destino. La palude in cui la politica ha portato per anni la siderurgia ci ha resi dipendenti da altri paesi, in primis la Germania per l’acciaio. Le auto prodotte in Italia sono realizzate con acciaio tedesco.
Il dibattito politico è incentrato su temi che nulla hanno a che fare con ciò che realmente occorre all’Italia e si sta consumando in queste settimane su assurde scaramucce sulla legge di bilancio. Nascondendo profonde incapacità di visone e progetti di lungo periodo.
Oggi la politica tutta, dovrebbe ritornare ad un’idea alta di servizio, utile ad accrescere il benessere di tutti e per creare le condizioni che possano permettere al paese intero di rimanere nei posti alti della classifica dei paesi più industrializzati nel mondo. Il Governo togliendo lo scudo penale, che ricordo era limitato nel tempo di attuazione del piano ambientale, ha offerto all’azienda un alibi clamoroso per mollare e per farlo ha scelto il momento peggiore, con il mercato europeo dell’acciaio in calo, i dazi Cina e Usa che stanno pesantemente colpendo il settore e la crisi dell’automotive. Insomma, non si poteva scegliere momento peggiore per dare un alibi al disimpegno di ArcelorMittal.
Il Piano industriale e ambientale complessivamente portava in dote 4.2 miliardi di investimenti per il rilancio del siderurgico, di cui 1,25 industriali, 1,15 ambientali a cui si sommano 1.2 miliardi sequestrati ai Riva per le bonifiche e l’ambiente. Risorse ingenti che dovevano servire a rendere sicuro, sostenibile ambientalmente e competitivo il sito tarantino. Con un’Aia, (l’Autorizzazione Integrata Ambientale) che a Taranto, è la più restrittiva d’Europa. Sul tavolo oggi non ci sono piani B o C, e l’ex-Ilva rischia di diventare una “Bagnoli 2”. Dove oltre all’inquinamento si rischia di lasciare sul terreno anche la disoccupazione. Una vicenda che se non si ragiona dentro la ricerca di una soluzione che tenga insieme acciaio, lavoro e ambiente, rischia di trasformarsi solo in una lunga e infruttuosa battaglia giudiziaria. Produrre acciaio in maniera sostenibile sul piano sociale, sanitario e ambientale è possibile, la Voestalpine a Linz, in Austria, produce acciaio in maniera sostenibile. I cittadini non si sono lasciati forviare da demagoghi urloni e hanno votato politici che hanno saputo conciliare ambiente e crescita industriale. In Italia, invece, si è configurato un vero e proprio conflitto tra i poteri dello Stato con nessuno capace, o abbastanza autorevole, per richiamare questi poteria obiettivi comuni.
L’idea che circola della nazionalizzazione è folle e priva di fondamento. Gli anni della gestione pubblica, anche quelli più recenti della gestione commissariale sono stati disastrosi. Chi ne parla, non conosce la normativa europea in materia che lo vieta, e ignora che i francesi non poterono nazionalizzare Florange, altro stabilimento di Arcelor Mittal. Il danno ormai è fatto, ma è auspicabile che il Consiglio dei Ministri ripristini immediatamente lo scudo penale generale, togliendo dal tavolo l’alibi ad ArcelorMittal dimostrando che in questa vicenda tutto il governo è compatto per trovare una soluzione riaprendo un tavolo negoziale con ArcelorMittal. Non tutto è perduto ma bisogna avere le idee chiare soprattutto nella direzione di tenere aperto il siderurgico. Dopo la chiusura dell’altoforno di Piombino, in Italia si produce acciaio da ciclo integrale solo a Taranto, rinunciarvi significherebbe perdere sovranità industriale in un settore fondamentale per l’ industria italiana.
Conciliare ambiente è crescita è possibile altrove, perché non dovrebbe esserlo in Italia? Intanto le aziende continuano a delocalizzare. Gli investimenti diretti dall’estero restano in Italia comparativamente bassi rispetto ai nostri partner europei perché l’habitat che offriamo alle imprese è inospitale, quanto ostile: burocrazia inefficiente, giustizia lenta, infrastrutture scadenti, costo dell’energia troppo alto, diffidenza verso l’innovazione, e si potrebbe continuare. Per essere competitivi è da qui che dobbiamo ripartire.
Marco Bentivoglio
12 novembre 2019
https://www.interris.it/intervento/perch–una-follia-nazionalizzare-lilva