Christopher Dummitt è docente universitario presso la Trent University’s School for the Study canadese, ma soprattutto è uno storico che ha contribuito a diffondere il mantra dell’ideologia gender: l’idea che il sesso non è una realtà biologica, non esiste il maschio e la femmina, perchè il genere altro non è che un costrutto sociale teso a preservare le strutture di potere tradizionali e maschiliste.
Contrordine: è tutto un bluff. E’ lo stesso esperto di gender studies che ha deciso di recitare il mea culpa pubblicamente attraverso un lungo articolo scritto di proprio pugno e pubblicato sul sito australiano Quillette lo scorso 17 settembre con il titolo ‘Confessions of a Social Constructionist’.
“I miei studi – dichiara – non dimostrano nulla in alcuna direzione. Ho ipotizzato che il genere fosse un costrutto sociale e ho ricamato tutte le mie ‘argomentazioni’ su quella base, non avendo mai affrontato un’opinione diversa da questa – almeno non seriamente -, e nessuno, in qualsiasi momento durante i miei studi universitari o durante il processo di pubblicazione dei miei articoli di ricerca, mi ha mai suggerito altro.
Le uniche critiche che ho ricevuto mi hanno chiesto di rafforzare ulteriormente il paradigma o di lottare per altre identità o contro altre forme di oppressione”.
Di questo articolo ne è uscita un’ampia divulgazione sul quotidiano Le Point (traduzione di Peggy Sastre) con il titolo ‘Théorie du genre : confessions d’un homme dangereux’ e sul quotidiano italiano La Verità (“L’ideologo gender confessa: ‘mi sono inventato tutto'”, di Adriano Scianca).
Si tratta di una soprendente excusatio non petita che ha il pregio di confessare che il re è nudo e che il mondo accademico ha una pesante responsabilità all’interno del pervasivo processo culturale di destrutturazione dell’antropologia umana nella società odierna.
Per questo motivo, vogliamo offrirvi la possibilità di leggere per intero l’articolo di Chistopher Dummit nella nostra traduzione in lingua italiana.
Se avessi saputo – 20 anni fa’ – che la mia parte nelle guerre ideologiche sul genere e sul sesso avrebbe vinto in modo così decisivo, sarei stato estatico.
Ho trascorso molte serate al pub o in cene discutendo di genere e identità con altri studenti laureati o con chiunque avesse voglia di ascoltarmi: mia suocera, i miei parenti o solo una persona a caso abbastanza sfortunata da essere alla mia presenza.
Ho sempre insistito sul fatto che ‘il sesso non esiste’. Lo sapevo tutto qui. Perché sono uno studioso del gender.
Negli anni ’90 questa convinzione era il non plus ultra nei dipartimenti di storia in tutto il Nord America. La storia di genere – e più in generale i gender studies in tutto il resto del mondo accademico – faceva parte di un gruppo più ampio di sotto-discipline basate sull’identità (di genere) che stavano prendendo piede tra le arti liberali.
I dipartimenti di storia in tutto il continente furono trasformati. Quando l’American Historical Association ha compiuto alcune indagini circa le aree di specializzazione tra i principali settori – nel 2007 e poi di nuovo nel 2015 – quella più diffusa era la storia delle donne e di genere. I gender studies stavano fianco a fianco con la storia sociale, la storia culturale e la storia della razza e della sessualità. Ciascuno di questi settori condivideva la mia stessa visione del mondo e cioè – in sostanza – che ogni identità è una costruzione sociale. E che l’identità non è che una questione di potere.
All’epoca, non tutti erano d’accordo con me. Quasi nessuno che non fosse stato esposto a simili teorie in un’università poteva credere che il sesso fosse interamente un costrutto sociale, perché tale credenza andava contro il buon senso. Questo è ciò che rende così sorprendente il fatto che l’inversione culturale su questo tema sia avvenuta così rapidamente.
Sempre a quei tempi, le persone ragionevoli potevano anche ammettere che alcune – forse molte – delle identità di genere fossero delle costruzioni sociali, ma ciò avrebbe davvero significato che il sesso non dovesse avere alcuna importanza? Che il genere è basato esclusivamente sulla cultura?
Sì, insistevo. E poi avrei insistito ancora di più. Non c’è niente di così sicuro come uno studente laureato armato di preziosa piccola esperienza di vita e di una grande idea.
Oggi la mia grande idea è ovunque. Nei dibattiti sui diritti dei transessuali e nelle politiche da adottare in merito agli atleti trans nello sport. Oppure nei sistemi legislativi di tanti Paesi, che minacciano sanzioni per chiunque osai suggerire che il sesso potrebbe essere una realtà biologica. Per molti attivisti una simile affermazione equivarebbe ad un incitamento all’odio.
Se oggi difendi la posizione della maggior parte dei miei avversari – cioè che il genere è basato almeno in parte sul sesso e che in pratica ci sono solo due sessi (maschio e femmina), così come i biologi sanno fin dagli albori della loro scienza – i super-progressisti ti accuseranno di negare l’identità delle persone trans e quindi di voler causare danni ontologici a un altro essere umano. A questo proposito, per la sua ampiezza e velocità, il cambiamento culturale è stato sconcertante.
Sono sicuro di non aver bisogno di istruire i lettori di Quillette circa le modalità con le quali questa logica ha pervaso la nostra cultura.
Ma quello che posso offrire è un mea culpa per il mio ruolo in tutto questo e una critica dettagliata sul perché mi sbagliavo allora e perché i costruttivisti sociali radicali adesso sbagliano.
Ho sostenuto anche io gli stessi argomenti all’epoca e dunque so bene dove e come essi si sbagliano.
Ho la mia tessera del club socio-costruzionista. Ho terminato quel dottorato di ricerca in gender studies e pubblicato il mio primo libro sull’argomento, The Manly Modern: Masculinity in Postwar Canada, nel lontano 2007.
Ma non ci si lasci ingannare dal titolo.
In realtà il mio studio si basava solo su cinque casi studio della metà del XX° secolo, tutti incentrati su Vancouver, che ha dato il via ad un dibattito pubblico attorno ad alcuni elementi del cosidetto ‘maschile’ (‘masculine’). Gli esempi che ho usato erano basati sulla cultura automobilistica, del sistema penale, un club di alpinismo, un terribile incidente di violenza sul luogo di lavoro (il crollo di un ponte) e una commissione reale per il trattamento di un gruppo di veterani militari. Non entrerò nei dettagli, ma ora mi vergogno di alcuni dei contenuti, specialmente per quanto riguarda gli ultimi due esempi.
Il libro non ha vinto alcun premio, ma sembra essere diventato uno di quei libri che gli studiosi citano a volte quando vogliono scrivere sulla storia della mascolinità (Google mi dice che è stato citato 112 volte a luglio 2019. Non è molto, ma la storia canadese è un piccolo campo e il numero di citazioni di solito è piuttosto basso per tutti). In questi giorni, la mascolinità – specialmente della varietà “tossica” – è un argomento caldo . Ma all’epoca c’erano pochi libri scritti sulla mascolinità in Canada, e quindi il mio ottenne più della sua quota di attenzione.
Ho anche pubblicato un articolo tratto dalla mia tesi di laurea, che probabilmente aveva una portata più ampia del mio lavoro accademico. Questo è stato un divertente articolo chiamato Finding a Place for Father: Selling the Barbecue in Postwar Canada , che esaminava il legame tra uomini e il barbecue in Canada negli anni ’40 e ’50 (sì, questo è il genere di cose che fanno gli accademici.) Pubblicato per la prima volta nel 1998 è stato ripubblicato più volte nei libri di testo universitari. Molti studenti nello studio della storia canadese sono stati costretti a leggerlo per saperne di più sulla storia del genere e sulla costruzione sociale del genere.
Piccolo problema: ho sbagliato. O, per essere più specifico, avevo parzialmente ragione. E per il resto, ho inventato tutto dalla A alla Z.
Non ero l’unico. Ecco cosa fanno (e fanno ancora) tutti. Ecco come funziona il campo degli studi di genere. Non provo a liberarmi. Avrei dovuto essere più discriminante. Ma, a posteriori, penso che sia stato il caso: non mi sono ingannato. Ecco perché ho difeso la mia posizione con così tanto fervore, rabbia e sicurezza. Ciò mi ha permesso di nascondere che a un livello molto elementare non ero in grado di dimostrare gran parte di ciò che ho sostenuto. Intellettualmente, non è stato carino. E questo è ciò che rende così deludente vedere che i punti di vista per i quali discutevo con tanta fervore – e senza fondamento – sono stati ora accettati da così tanti nella società.
La mia metodologia era in tre fasi.
Prima di tutto, avrei sottolineato che come storico sapevo che c’era una grande variabilità culturale e storica. Che il genere non è stato sempre e ovunque definito allo stesso modo. Come ho scritto in The Manly Modern , il genere è “una raccolta di concetti e relazioni storicamente mutevoli che danno senso alle differenze tra uomini e donne”.
E insistitevo: “Non esiste un fondamento storico della differenza sessuale radicato nella biologia o qualsiasi altro solido fondamento la cui esistenza precede la sua apprensione culturale”.
Avevo i miei esempi preferiti che reciclavo nelle mie lezioni o conversazioni. Luigi XIV e quella che chiamavo manly-calf pose, posa da vitellone virile, vista come l’apice della virilità nel 1600, ma che ora appare piuttosto effeminata.
Ho anche parlato di blu e rosa, con citazioni risalenti agli anni ’20 che mostravano persone che sostenevano che ai ragazzini veniva consigliato di indossare il rosa perchè “infuocato e terroso”, mentre il blu “arioso ed etereo” era preferito per le bambine. Il mio pubblico scoppiava a ridere dandomi così ragione: quella che consideravamo la verità assoluta e certa del genere era in effetti cambiata nel tempo. Il genere non era binario. Era variabile e forse anche all’infinito.
In secondo luogo, avrei detto che ogni volta che qualcuno sostenesse la tal cosa maschile o femminile che non si trattava mai solo di genere. Si trattava sempre, contemporaneamente, di potere. E il potere era e rimane una sorta di parola magica nel mondo accademico, specialmente per uno studente laureato che leggeva per la prima volta Michel Foucault.
Ricordiamo che allora eravamo nel bel mezzo di infinite discussioni sulla “rappresentatività” (chi ce l’ha? Chi no? Quando? Dove?). Pertanto, se qualcuno negava che il sesso e il genere fossero variabili, se insinuava che c’era qualcosa di intramontabile o biologico nel sesso e nel genere, allora stava effettivamente cercando di giustificare il potere. E quindi legittimare le oppressioni. Suona familiare?
Nel mio articolo sugli uomini e il barbecue in Canada, per esempio, ho affermato di sapere che questo controllo della spatola riguardasse davvero il potere in generale.
‘Possiamo vedere il coinvolgimento degli uomini nelle questioni domestiche [il barbecue] come un piccolo passo di una progressiva evoluzione?’, mi domandavo. No, certo che no.
Invece, il modo in cui le persone parlavano del barbecue maschile ‘ridefinivano e articolavano divisioni più vecchie tra pubblico e privato, maschile e femminile”. In The Manly Modern, sono stato ancora più esplicito: ‘Il genere riguarda anche il potere … Fare riferimento a due concetti in un modo che codifica uno come maschile e l’altro come femminile è stabilire una gerarchia tra i due’. Non c’è mai stata solo una descrizione del genere. Le idee sulla mascolinità nel passato sono sempre state create ‘per scopi politici’.
Le idee particolari di cui ho parlato nel libro, sostenevo all’epoca, ‘hanno mostrato come le persone in passato nel descrivere le cose come maschili o femminili avevano fornito una spiegazione degli uomini e le differenze delle donne e una potente giustificazione della disuguaglianza fra essi’.
E poi, in terzo luogo, andavo alla ricerca di qualche spiegazione nel contesto storico che mostrasse, in un particolare momento storico, perché le persone parlassero di qualcosa come maschile o qualcos’altro come femminile. La storia è un grande luogo. E così c’era sempre qualcosa da trovare.
Ho scritto degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, di come le persone fossero allora in ansia per un ritorno alla normalità dopo la guerra. Le donne avevano prestato servizio militare e avevano svolto lavori ‘da uomo’. Quindi l’attenzione sulle distinzioni di genere era per riportare le donne a casa dopo il lavoro durante la guerra. Si trattava di controllo e oppressione.
E, naturalmente, le persone erano in ansia per questi sviluppi alla fine degli anni ’40. Potrei citare la ricerca di altri in quest’area, e quindi mostrare – davvero, pensavo all’epoca – che il genere fosse un costrutto sociale e che venisse costruito in modo da rimettere le donne al loro posto dopo la seconda guerra mondiale.
Nel mio libro ho fatto proprio questo. Ero stato affascinato dalla lettura della modernizzazione della vita a metà del secolo scorso e quindi ho sottolineato tutti i modi con i quali le persone negli anni del dopoguerra parlassero di modernità utilizzando virilità. È stato – come lavoro di studio – un lavoro fatto bene, se così posso dire. Il problema era che, in parte, era fallito intellettualmente.
Ecco dove non ho sbagliato: la ricerca archivistica, credo, era solida. Sono tornato sui documenti del tempo e così sono stato in grado di recuperare il modo in cui le persone parlavano e scrivevano sull’essere un uomo. Ho davvero avuto modo di conoscere quella fase storica. Questa è la meravigliosa parte voyeuristica e pseudo-itinerante di essere uno storico.
Nella misura in cui mi sono attenuto ai documenti e ho ricostruito il modo in cui le persone parlavano in passato ero su un terreno sicuro. Questo è – nel linguaggio degli storici- il ‘come’ della storia. Gli storici privilegiano alcuni tipi di domande rispetto ad altre. Tutti gli storici dovrebbero attenenersi al chi, cosa, quando e dove. Questi sono i dettagli del passato. Ma questo tipo di accuratezza è, come ha scritto il grande storico EH Carr, un dovere e non una virtù. Quindi non è qualcosa di cui mi vanto.
Ma poi ci sono altre due domande, e queste sono quelle che contano davvero.
La prima di queste è: come è potuto succedere? Come hanno pensato le persone in passato? Rispondere a queste domande significava ricostruire modelli di pensiero. Non puoi mai ricostruire completamente i modelli di pensiero degli altri, specialmente di quelli che hanno vissuto in un’altra epoca.
Ma la domanda più grande di tutte, la più importante, è l’ultima:‘perché?’ Perché un certo evento è accaduto nel modo in cui è successo?
Nel mio caso: perché i canadesi del dopoguerra hanno parlato di uomini e donne come hanno fatto?
Le mie risposte, non le ho trovate nella mia ricerca principale. Le ho tirate fuori dalle mie convinzioni ideologiche, anche se, al momento, non le avrei qualificate in quel modo. Solo che è quello che erano: un insieme di credenze preconcette e integrate a priori nella penombra accademica degli studi di genere. Né i miei colleghi studiosi che hanno adottato lo stesso approccio e, a differenza di me, lo fanno ancora. In sostanza, ho seguito la metodologia incentrata su Foucault nei tre punti sopra descritti.
Tale era il mio argomentare: se le persone parlavano di uomini come lo descrivevo, era perché il genere è un costrutto sociale i cui contorni possono essere attribuiti solo al potere e all’oppressione. I canadesi hanno usato il pensiero di genere perché ha dato potere agli uomini e lo ha negato dalle donne, perché ha strutturato la mascolinità come superiore alla femminilità.
Naturalmente, si potrebbe partire dalla stessa base documentale e giungere ad altre spiegazioni, anch’esse perfettamente plausibili. I canadesi del dopoguerra vedevano gli uomini come persone che corrono rischi a causa della costruzione sociale? Sì, è plausibile. Poiché è altrettanto plausibile pensare che essi la pensassero così … perché gli uomini, in media, corrono più rischi delle donne.
La mia ricerca non ha dimostrato nulla, in una direzione o nell’altra.S upponevo che il genere fosse un costrutto sociale e ricamavo tutte le mie argomentazioni su quella base.
Non mi sono mai innamorato – almeno non seriamente – con chiunque suggerisse opinioni ed ipotesi differenti dalle mie. E nessuno, in tutte le fasi dei miei studi universitari o in un confronto tra docenti, mai mi ha suggerito altrimenti, tranne che in alcune conversazioni di solito al di fuori del mondo accademico.
E così non sono mai stato costretto a confrontarmi con spiegazioni alternative, orientate biologicamente, plausibili almeno quanto come l’ipotesi che mi ero cucito addosso con quell’aria di certezza. La critica di Steven Pinker al costruzionismo sociale, The Blank Slate: The Modern Denial of Human Nature , è stata pubblicata nel 2002, prima che finissi il mio dottorato e prima che pubblicassi il mio libro.
Eppure non ne avevo mai nemmeno sentito parlare e nessuno mai mi ha suggerito che avrei potuto aver bisogno di analizzare e prendere in considerazione i suoi argomenti.
Le uniche vere critiche che ho ricevuto sono state ammonizioni per rafforzare il mio paradigma o per lottare per altre identità e difenderci da altre forme di oppressione (l’idea che l’oppressione esistesse assolutamente sulla base di queste identità intersezionali era semplicemente assunta e non dimostrata).
Alcuni dei primi dubbi che ho iniziato ad avere sulla mia formazione universitaria hanno iniziato ad insinuarsi ad un certo punto.
Ricordo una conversazione con uno storico geniale più anziano di me che si offrì gentilmente di leggere il mio articolo sugli uomini e il barbecue. Ero un giovane dottorando e facevo un lavoro completamente diverso dal suo. Non so perché mi abbia offerto i suoi commenti. Mi disse – educatamente – che i pezzi di mezzo erano buoni ma poteva ‘prendere o lasciare’ le parti alle due estremità.
Cioè, gli piaceva la ricerca vera e propria, dove ho ricostruito il modo con il quale le persone parlavano di mascolinità e cucina nel Canada del dopoguerra. Ma la parte in cui l’ho racchiusa nell’ideologia espressa dai libri recenti che avevo letto, non tanto.
Al momento, non ho apportato alcuna modifica. Come potrei? Quello era il paradigma a cui mi ero impegnato. Fu nell’introduzione e nella conclusione che stavo davvero colpendo i punti che volevo mettere in evidenza.
Per ribadire: il problema era, ed è, che stavo inventando tutto. Erano ipotesi istruite che stavo offrendo. Erano ipotesi.
Forse avevo ragione. Ma né io, né nessun altro, abbiamo mai pensato di esaminare ciò che ho scritto. Ciò che quel vecchio studioso mi aveva detto potrebbe essere applicato a migliaia di altri documenti e libri: il mezzo va bene, ma le parti alle estremità sono confuse.
Ce ne sono altre, tuttavia, di questioni.
Le aspettative di genere sono davvero così diverse e variabili nel tempo e nello spazio? Impossibile rispondere con i piccoli aneddoti che ho adorato citare.
Questa domanda deve essere studiata in modo sistematico e comparativo. Nella mia lettura devo ammettere che ciò che ho visto era più che altro una leggera variabilità con evidente coerenza centrale. Che gli uomini siano visti come i principali fornitori di risorse, coloro che assumono rischi e coloro che sono responsabili della protezione e della guerra sembra un’idea abbastanza stabile nella storia e nelle culture. Sì, ci sono variazioni a seconda dell’età e di alcune particolarità culturali e storiche. Ma senza presumere che queste piccole differenze siano di grande importanza.
E la questione del potere è davvero onnipresente? Forse. E forse no. Per provare che fosse davvero così, stavo solo citando altri ricercatori che ne erano convinti. E ancora meglio se fossero stati filosofi con un nome francese. Ho anche fatto molto affidamento sul lavoro di un sociologo australiano, R. W. Connell.
Secondo lei, la mascolinità è soprattutto una questione di potere e rende possibile affermare il dominio degli uomini sulle donne.
Solo che le sue opere non lo provano. Tutto quello che fa, come ho fatto io, è estrapolato da piccoli casi di studio. Così ho citato Connell. E altri mi hanno citato. Ecco come ‘dimostriamo’ che il genere è un costrutto sociale e una questione di potere. Nel modo con il quale si può provare qualsiasi cosa e il suo esatto contrario.
Il mio ragionamento rude e altre opere accademiche che sfruttano lo stesso pensiero difettoso sono ora ripresi da attivisti e governi per imporre un nuovo codice di condotta morale.
Quando ho preso gli occhiali con altri studenti e tutti abbiamo lottato per la supremazia del nostro ego non ha avuto troppe conseguenze.
Ma la posta in gioco oggi è diversa.
Vorrei poter dire che questo campo di studio è migliorato, che le regole di evidenza e la validazione della comunità accademica sono più esigenti. Solo che, in realtà, l’accettazione quasi completa del socio-costruttivismo in certi ambienti è più il risultato di un cambiamento demografico nel mondo accademico, con punti di vista – oggi – ancora più egemonici di allora.
Questa confessione non dovrebbe essere vista come un argomentazione per la quale il genere non è, in molti casi, socialmente costruito.
Tuttavia, i critici dei socio-costruttivisti hanno ragione ad alzare gli occhi al cielo quando i cosiddetti esperti presentano loro le cosiddette prove.
Gli errori del mio ragionamento non sono mai stati denunciati e in realtà sono stati confermati solo dai miei colleghi.
Finché non avremo un’area molto critica e ideologicamente diversificata di studi di genere – fintanto che la validazione tra pari sarà poco più che lo screening ideologico di se stessi -, dovremo prendere con le pinze ogni studio sulla costruzione sociale di sesso e genere.