Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza, racconta le ore folli della sommossa nel carcere milanese tra roghi e cascate d’acqua.
Per ore magistrati e agenti avevano fatto su e giù dai reparti, risalendo quei torrenti di acqua gelida che invadevano celle e scalette, detriti che galleggiavano nel buio, roghi di lenzuola, odore di gomma bruciata, caloriferi divelti, vetri ovunque, piramidi di letti di ferro e sgabelli sgangherati alte fino alle botole del soffitto. Sapendo una cosa sola: nulla inizia e finisce per caso in carcere, ma l’alibi del coronavirus non era stato fornito da circostanze o istituzioni. Non a Milano. «Le limitazioni a San Vittore erano scattate già da 15 giorni – cioè dal 21 febbraio, quando in Lombardia si è iniziato a lavorare subito tutti e come si poteva per fronteggiare l’allarme sanitario – e nulla lasciava presagire cosa sarebbe accaduto. Non qui. Non dopo due settimane di attenzione, dialogo e gesti di vera autoresponsabilità».
La mattina di lunedì 9 marzo Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, si trova a San Vittore insieme a direttore e comandante per incontrare i rappresentanti dei detenuti. Sono passate poche ore dalla pubblicazione del nuovo dpcm firmato da Giuseppe Conte con i provvedimenti più stringenti per contenere la diffusione del coronavirus in Lombardia, poche ore dallo scoppio delle prime rivolte nei carceri di Modena, Frosinone, Pavia.
Presidente Di Rosa, per due settimane tutti gli operatori hanno spiegato le ragioni di ogni provvedimento, restrizione, limitazione alle tradizionali regole di vita del carcere. Cosa cambia il 9 marzo?
Per San Vittore sarebbe cambiato poco rispetto agli altri istituti di pena: a Milano avevamo fatto tanta comunicazione trasparente e preventiva, spiegando che la regolamentazione degli ingressi era necessaria per motivi sanitari. Erano già state ridotte all’osso le attività di volontariato o formative, entravano solo operatori penitenziari sottoposti a triage, medici e infermieri monitoravano costantemente i detenuti. Avevamo lavorato moltissimo anche in previsione della limitazione dei colloqui con i famigliari via telefono: molti detenuti temevano non tanto per la propria salute, quanto per quella dei famigliari a casa. Il carcere è un arcipelago delicatissimo, non si può mentire a un detenuto: ascolto e dialogo sono strumenti per realizzare la tanto sbandierata educazione alla legalità. Tutti i detenuti sono stati messi al corrente di tutto quello che sarebbe successo, applicando forme di attenzione, contenimento, isolamento e chiusura rispetto alla tradizionale “vita quotidiana” fin da subito.
E neanche un materasso bruciato per 15 giorni.
Dopo 15 giorni di comunicazione e autoresponsabilità – e sottolineo ancora il termine -, i detenuti della regione più colpita dal coronavirus apprendono le notizie in tv e col “tam tam” del carcere: si parla di isolamento per reclusi “sintomatici”, di sospensione di tutti i colloqui, di limitazioni di permessi e semilibertà, si diffondono notizie di rivolte, decessi, evasioni di massa. Un richiamo sordo che rimbalza a tappeto da un luogo all’altro e la mattina del 9 febbraio arriva anche da noi. Ero in riunione con il direttore, il comandante e i delegati dei detenuti per affrontare il problema della gestione della prevenzione del contagio e dei colloqui telefonici e via skype quando sentiamo i primi boati. Si propagano di reparto in reparto, insieme a grida furiose, i detenuti iniziano a fuggire nei corridoi, distruggere materassi, incendiare coperte e lenzuola, spaccare tutto, l’impianto elettrico e i tubi dell’acqua, i caloriferi. In pochi minuti alcuni reparti sono piombati nel buio, altri hanno iniziato ad allagarsi. Tutto era pieno di fumo, odore di gomma bruciata. Due agenti sono stati presi in ostaggio. Alcuni detenuti hanno saccheggiato l’infermeria e sono andati in overdose da metadone. Arrivati all’ultimo raggio ci siamo trovati davanti una scena surreale: erano state issate delle barricate di letti alte fino al soffitto, erano state distrutte le botole, alcuni uomini si erano radunati sul tetto.
Si capisce il cortocircuito della comunicazione. Ma a far scattare la rivolta sono state le nuove misure di sicurezza o la paura del contagio?
Forse entrambe le cose, forse nessuna delle due. San Vittore è un istituto di pena dove arrivano persone appena arrestate, all’inizio del loro percorso giudiziario, in attesa di giudizio o di processo. San Vittore è lo specchio dell’Italia da record di detenuti in attesa di giudizio, della carcerazione preventiva, qui sono ospitati circa 1.100 detenuti a fronte di una capienza di circa 600 posti. San Vittore è un simbolo del sovraffollamento carcerario. Per capirci: a Bollate non abbiamo registrato proteste, a Opera proteste più contenute seppur gravi. Il problema dei detenuti di San Vittore non è il coronavirus.
Insieme a direttore, comandante, provveditore, al procuratore aggiunto Alberto Nobili e al pubblico ministero Gaetano Ruta, lei ha condotto una trattativa per sedare la rivolta. Alcuni giornali hanno titolato: “I detenuti comandano, i giudici si piegano”.
Non ho avuto tempo di leggere i giornali. Se per questi trattare significa venire a patti con i detenuti sulle barricate, ebbene non c’è stata nessuna trattativa. Le dico io cosa c’è stato: c’è stata da parte nostra la promessa di farci carico delle loro istanze e riportarle al ministro e al Dap. E questo per tre motivi molto semplici: una risposta è dovuta; su tanti fascicoli gravano le attese di migliaia di persone ed era il momento di dare a queste la precedenza; nessuno può permettersi un altro fronte caldo nella Milano del coronavirus. Nessuno ha promesso un risultato o trattato la pace in cambio di un esito specifico, nessuno si è piegato a un ricatto, tanto è vero che nessuno a Milano ha parlato di timbro della legge per ottenere l’indulto: nella lettera inviata a Roma si chiede al ministero di Giustizia e al Dipartimento di amministrazione penitenziaria di prendere sulle spalle la responsabilità del sovraffollamento e prevedere modifiche anche normative che allevino la permanenza dei detenuti in queste condizioni. Questo abbiamo fatto: la storia ci insegna che si può intervenire con bastoni e idranti, noi non li abbiamo usati. E i detenuti hanno capito che non avrebbero ottenuto nulla con le barricate.
Il suo Tribunale di Sorveglianza, intanto, si è attivato per “liberare” le carceri “il più possibile” e avviato “intese con il Sert” (il servizio contro le tossicodipendenze).
Sì, l’obiettivo è potenziare gli affidamenti terapeutici e le misure alternative anche con un tavolo che si è costituito con il Tribunale di Sorveglianza di Brescia e le direzioni delle carceri, il Provveditorato regionale e Regione Lombardia, i garanti e l’Unep. Adesso c’è il coronavirus ma il coronavirus ci impone di prendere in mano tutte quelle valutazioni rimandate per anni. Non vedo continuità con la “decarcerazione” seguita alla sentenza Torreggiani (quando lo Stato italiano è stato condannato per sistematica violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea ovvero la proibizione di trattamenti inumani e degradanti) o con i provvedimenti seguiti i correttivi Cedu, o con i rimedi compensativi previsti dall’articolo 35-ter che riconoscono al detenuto, sottoposto a condizioni che violino l’articolo 3, una riduzione della pena ancora da espiare o il risarcimento del danno. È possibile ottenere nuove forze e accelerare la strada per realizzare misure alternative? Maggior ricorso alle misure alternative e la riduzione dell’applicazione della custodia cautelare sono argomenti espressi dalla Corte europea che invita gli Stati a esortare in questa direzione giudici e procuratori. Sono un dovere. Fuori la vita va avanti? Va avanti anche dentro. Va avanti anche in carcere, che ricordo essere la casa dello Stato. Casa per sessantamila persone che non termineranno la reclusione con la fine dell’emergenza coronavirus.
Caterina Giojelli
16 marzo 2020
«San Vittore era pronto al coronavirus. Ecco come è nata la rivolta»