«Le urla che abbiamo sentito nelle ultime ore di tanti, soprattutto in Puglia, Calabria e Sicilia, contro quanti tornavano precipitosamente dal Nord ricordano il manzoniano “dagli all’untore”. Certo non sono cristiane, né belle, né tantomeno giuste sotto il profilo dell’aggressività umana. Ma non è neppure da approvare questa fuga quasi clandestina, che obbedisce soprattutto al proprio istinto egoistico». A dirlo è un prelato di altissimo livello, l’arcivescovo di Acireale Antonino Raspanti, vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana per il Sud.
Eccellenza, è stata la fuga precipitosa dei tanti meridionali che vivono e lavorano al Nord e, temendo l’ulteriore diffusione del contagio, nella notte tra sabato e domenica, e alle prime luci dell’alba, hanno preso d’assalto treni, autobus e auto proprie per tornare a casa, spesso nelle proprie famiglie. I tanti che sono emigrati in Lombardia per lavoro…
«E’ vero, in gran parte sono i nostri figli e nipoti e quando partirono, quanti di noi si sono lamentati e hanno pianto. Ma oggi, di fronte a quest’emergenza, genitori e figli dovrebbero mostrare un pizzico di ragionevolezza in più. Questa fuga in massa, quasi clandestina, prima che il decreto entrasse in funzione, dimostra che non sappiamo reggere l’urto del dolore nella distanza. Ma mi chiedo: come fecero coloro che andarono in guerra e quelli che per mesi, se non per anni, sono stati imbarcati sulle navi e non hanno visto le proprie famiglie, i propri affetti?».
Forse è la dimostrazione concreta che la nostra cultura resta troppo fragile e di fronte a fenomeni come il Coronavirus non regge l’impatto con una dura realtà?
«Io penso che vicende come questa abbiano in sé anche alcuni germi positivi, perché consentono di riscoprire valori negletti, come il dialogo all’interno delle famiglie, l’umiltà, cosa voglia dire resistere e darsi vicendevolmente forza».
Arcivescovo, non pensa che alcuni di questi comportamenti siano anche frutto dei comportamenti egoistici di ieri di tanti al Nord verso i territori meridionali, i loro bisogni, le loro necessità economiche e sociali?
«Certamente sì. Senza dimenticare che quei comportamenti li abbiamo consentiti tutti, non solo le classi politiche e dirigenti delle regioni più ricche e sviluppate del Paese. L’acuirsi del divario tra Nord e Sud, che anche recentemente è stato documentato con cifre e dati, ha fomentato queste forme di egoismo, ha inferto un duro colpo all’unità della nazione, e rischia di mandare a gambe all’aria la coesione e la solidarietà nazionale».
Come vive il mondo cristiano questa scelta del tutto nuova e molto avvertita nel popolo di Dio, di sospendere la celebrazione delle messe in tutt’Italia, di non fare né matrimoni né funerali, in buona sostanza di soprassedere a tutti i riti religiosi proprio durante la Quaresima, con la Pasqua in arrivo?
«Su questo punto sono esplicito. Noi vescovi ci siamo sottomessi a questa decisione, in sé discutibile, del governo italiano, in quanto i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dal Concordato, ma l’abbiamo accolta per il bene pubblico e per l’amore che abbiamo verso il nostro Paese. Però debbo ora con la stessa franchezza dire che in passato, in molti casi, mi sarei e ci saremmo aspettati che la classe dirigente ci avesse convocato ai tavoli dove sono state assunte importanti decisioni nell’interesse dei cittadini e avesse quanto meno ascoltato le nostre proposte».
La Cei, in sostanza, rivendica una sorta di pari dignità con gli altri soggetti in campo?
«Ora ci aspettiamo che, dopo averci chiesto questi sacrifici, quando sarà il momento di avviare la ricostruzione del Paese (perché non illudiamoci, la crisi economica e sociale che ci lascerà in eredità il Coronavirus sarà enorme, probabilmente la più grossa dal Dopoguerra), non si dimentichino di noi. Come buona parte, non tutta per fortuna, la classe dirigente italiana ha fatto nel corso degli ultimi anni. Pensi solo alle forme di solidarietà che, al Sud come al Nord, le nostre mense, le nostre parrocchie, le nostre associazioni hanno svolto in condizioni di supplenza e continuano a fare verso poveri, anziani, deboli, bisognosi».
E’ presto per pensare a cosa fare una volta finita l’emergenza, ma è doveroso per guardare avanti con fiducia.
«Nel Dopoguerra si puntò su un grande Piano Marshall. Io direi, viste le dimensioni del contagio, un Piano di valenza nazionale e internazionale, attorno al quale costruire un’autentica visione di prospettiva».
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