La sottovalutazione del pericolo, i comportamenti inadeguati, la scarsa attenzione verso i moniti degli esperti. Forti le analogie con l’attualità nei «Promessi sposi»
«La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia». Incipit del capitolo XXXI dei Promessi sposi. Così Manzoni si avvia a raccontare «quella calamità», che occupa questo e il capitolo seguente, senza coinvolgere personaggi immaginari e sostenendosi su documenti storici. Non solo Manzoni — molto prima di lui Tucidide e Boccaccio e dopo di lui Camus ne La peste e Saramago in Cecità — lega l’epidemia a riflessioni di tipo morale: la peste è uno stato d’eccezione che porta a galla vizi e virtù di una comunità, eroismi e viltà dei singoli individui, tutti quei tratti che altrimenti si nascondono nelle pieghe della quotidianità.
Inoltre, se il flagello minaccia la tenuta fisica della popolazione rivelando la fragilità dell’essere umano, mette anche in discussione i suoi stessi valori e le norme di comportamento. E investe il rapporto tra verità e menzogna, tra vero e falso storico da una parte, nonché tra il vero e il falso delle notizie che si diffondono sul territorio: sono le false opinioni e credenze che riguardano tutti i gruppi sociali il vero obiettivo polemico di Manzoni. Il quale ironizza da par suo alludendo a quella «voce del popolo» che, assecondata dalla dabbenaggine dei governanti, restii ad ammettere i fatti per ragioni politiche ed economiche, sulle prime non vuol credere alla peste.
Il suo racconto è un crescendo impressionante con passaggi da thriller, giocato com’è sul mistero e sulla stranezza perturbante di certe apparizioni: «Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi».
E così quando i delegati arrivano «a provvedere» nei territori di Lecco, in Valsassina, sul Lago di Como, in Brianza, «il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca». Il romanzo di Renzo e Lucia è anche un intreccio di informazioni mancate e cercate a fatica, di annunci mai giunti a buon fine, di voci che si rincorrono senza certezze, di indicazioni sbagliate, di equivoci della comunicazione, di lettere non recapitate, di incognite sul destino dei congiunti e di itinerari smarriti: oggi la tv, la radio, le mail, i social e i navigatori satellitari risolverebbero buona parte dei problemi che affliggevano i personaggi di Manzoni nell’anno di grazia (di disgrazia) 1630. Buona parte ma non tutti. E viceversa ci sono costanti del comportamento umano che comunque ritornano nel 2020 come allora nonostante gli smartphone.
Per esempio, la sottovalutazione colpevole e irresponsabile del contagio. Ecco che i messi del tribunale vengono sì tempestivamente sollecitati dal protofisico Ludovico Settala (un esperto in materia, per autorevolezza una specie di Burioni ottantenne, presidente della Commissione superiore della Sanità), ma si guardano bene dal prenderlo sul serio. E arrivando in ritardo sui luoghi dell’epidemia «trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi…».
Lacerazione e morte sono causate dall’iniziale concorso di credulità popolare e miopia del potere. Appare con «forte meraviglia» a Manzoni la condotta di quella fetta di popolazione che, «non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo»: chi crederebbe, si chiede il narratore, che l’incombere del morbo, ormai evidente, non riesca a suscitare «un desiderio di precauzioni» o «almeno una sterile inquietudine»? Sta parlando degli antenati (certo più spaventosamente ignoranti) dei molti che fino a qualche giorno fa, pur sommersi dal diluvio dell’informazione, affollavano sconsideratamente i pub, gli happy hour, i supermercati come nulla fosse: «sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, che motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo».
Altra differenza macroscopica è che allora, diversamente da oggi, la «medesima miscredenza» e cecità prevaleva anche nelle autorità pubbliche (tutte precocemente trumpiane?).Parziale eccezione il cardinal Federigo, un po’ più sollecito a lanciare l’allarme. La chiusa del capitolo XXXI rende al meglio il clima dell’epoca, ma anche la precisione e l’ironia che ci mette Manzoni nel descrivere il corso «storto» di certi discorsi e di certe parole pronunciate a sproposito.
Un passo che più di tanti altri dovrebbe farci riflettere sulla responsabilità nell’uso della lingua, sulla «trufferia di parole», sugli inganni del linguaggio che contribuiscono ad ammorbare l’aria: «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro (…). Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire».
Anche nella Milano di quel tempo si va a caccia del paziente numero uno. Il «portator di sventura» pare identificarsi in un soldato italiano al servizio dell’esercito spagnolo: il suo nome non è certo e neppure è certa la data del suo ingresso a Milano. Si suppone che si sia fermato in casa di parenti, vicino ai cappuccini, prima di finire in ospedale con un bubbone sotto un’ascella e di morire nel giro di quattro giorni. Seguono il sequestro della casa e l’isolamento dei parenti, nonché il rogo dei vestiti, ma è tutto inutile, visto che un «semino» del morbo «non tardò a germogliare». È così che, con il «contatto e la pratica» (esattamente quel che oggi cerchiamo di evitare al motto #iorestoincasa), il male si va diffondendo: e con esso cresce «la cieca e indisciplinata paura» in parallelo con la caccia all’untore. Eccoci vicini alle tinte più cupe del sospetto, del delirio delle unzioni e del complotto, tipiche della Colonna infame.
Anche nella Milano di quel tempo salta fuori il super commissario. Si chiama Felice Casati ed è il padre cappuccino che via via assume, nel racconto di Manzoni, un ruolo chiave, con l’incarico di sovrintendere al lazzaretto, dotato com’è di pieni poteri economici, organizzativi e giudiziari, ma soprattutto di carità cristiana nell’avvicinarsi ai malati: «sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte».
Un Domenico Arcuri di quattro secoli fa? Molto di più, se «minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime». Un amministratore che lavora anche sul campo come tanti altri piccoli eroi di ieri e di oggi (allora i monaci, oggi medici e infermieri che fanno turni ospedalieri impossibili fino a crollare di stanchezza su una tastiera). È il momento in cui si vede «la pietà cozzar con l’empietà (di altri)»: l’eterna costante italiana (e non solo). Fatto sta che anche nel Seicento si costruiscono in quattro e quattr’otto strutture di soccorso: «bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno», si tirano su capanne di paglia per ospitare quattromila pazienti. Anche nel 1630 c’è l’esigenza di «tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria».
Nella città devastata dalla morte e dal sospetto verso gli untori, oltre che dall’ignoranza che aggiunge «angustie alle angustie» e produce «falsi terrori», arriva Renzo. Il quale sa bene che le mura sono chiuse e non ci si può entrare senza «bulletta di sanità» (niente autocertificazione); ma sa bene anche che ogni ordine è mal eseguito e basta poco per disattenderlo. Infatti, entra grazie a una moneta.
Così gli appare Milano vista dalle parti del naviglio: «Il tempo era chiuso, l’aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna d’intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per di più, quella solitudine, quel silenzio, così vicino a una gran città, aggiungevano una nuova costernazione all’inquietudine di Renzo, e rendevan più tetri tutti i suoi pensieri».
Passato da una fase in cui ciò che gli faceva più terrore era il suo stesso terrore, scansata l’aggressione di un passante che lo prende per un untore, Renzo cammina per le strade abbandonate e squallide di Milano, non più dominato dalla paura ma alternando l’incomprensione, l’orrore di certe visioni cadaveriche repellenti con il coraggio e la speranza di raggiungere la meta (la casa di don Ferrante). Cammina e cammina sbucando in un luogo «che poteva pur dirsi città di viventi». Ma guardando le strade deserte e le case serrate, non può che pensare: «Ma quale città ancora, e quali viventi!».
Paolo Di Stefano
20 marzo 2020
https://www.corriere.it/cultura/20_marzo_12/coronavirus-rileggiamo-manzoni-quella-peste-milano-parla-noi-8c539f66-6474-11ea-90f7-c3419f46e6a5.shtml?refresh_ce-cp