La drammatica vicenda del card. George Pell è un caso giudiziario o è un simbolo? L’interrogativo è rilanciato dalla decisione dell’Alta Corte australiana che il 12 marzo ha deciso di rimandare la sentenza a cui è sottoposto. Essa uscirà fra alcune settimane e forse più. Nel frattempo, il porporato rimane nel carcere di massima sicurezza dove è rinchiuso per una condanna a sei anni per abusi su due chierichetti negli anni ’90, al tempo in cui era vescovo di Melbourne (Australia).
È certamente un caso giudiziario che coinvolge un prelato di 78 anni, già vescovo della capitale dello stato di Victoria, cardinale nel 2003, convocato a Roma nel 2014 da papa Francesco col compito di prefetto della Segreteria economica, il nuovo organismo chiamato a mettere ordine nel finanze e nella gestione vaticana. Elettore di due papi, è entrato nel ristretto gruppo dei C9 (9 cardinali) chiamati a coordinare la nuova riforma della curia vaticana. Per seguire il processo si è allontanato da Roma ed è stato sostituito nel suo ruolo l’anno scorso, senza una censura ecclesiastica, possibile eventualmente alla fine del processo civile, con un intervento di tipo canonico.
I tribunali
A giugno del 2017 viene accusato di violenza sessuale su minori, che lui nega fino ad oggi. A maggio del 2018 un giudice ordinario avvia un processo penale. A settembre il processo termina senza conclusione per la divisione all’interno della giuria. Ripreso tre mesi dopo, viene condannato. Dopo un ricorso, ad agosto del 2019 è di nuovo condannato dal tribunale di seconda istanza a sei anni di reclusione. A settembre presenta appello alla Corte suprema dello stato federale. Sette giudici si riuniscono il 11-12 marzo scorso, rimandando la stesura della sentenza.
Se la prima condanna riguardava 5 capi di accusa, la seconda li riduceva a due che coinvolgevano un paio di chierichetti. Sarebbero stati costretti a una fellatio e a una masturbazione nella sagrestia della cattedrale di Melbourne a metà degli anni ’90. Essendo una delle vittime morta per droga, la sentenza della Corte di appello poggia per intero sulla testimonianza dell’unico superstite. Essa è stata considerata pienamente credibile da due giudici, mentre il terzo non l’ha ritenuta tale. A questo punto ha preso avvio il ricorso alla Corte suprema.
L’accusa fa leva sull’affidabilità del racconto della vittima, mentre la difesa fa forza sulla ventina di testimonianze che convergono nel ritenere implausibile che il delitto potesse compiersi alla fine di una solenne celebrazione, in una sagrestia trafficata, con la gente all’esterno che aspettava il vescovo. Il tutto si riduce a cinque o sei minuti in cui il delitto avrebbe potuto avvenire.
La questione che la difesa ha sollevata davanti all’Alta Corte è duplice: a) tocca all’imputato dimostrare la sua innocenza o tocca alla difesa dimostrare, con il limite di un “dubbio ragionevole”, l’accusa? b) Si può riconoscere la credibilità di una vittima astraendo del tutto dal contesto che rende effettuabili i gesti contestati?
La Commissione federale
Le sottili discussioni del tribunale rimandano ad un contesto storico-civile di più ampia portata. E, in particolare, ai devastanti risultati della Commissione federale che ha presentato il 15 dicembre 2017 i numeri di cinque anni di lavoro sugli abusi sessuali perpetrati sui minori. Nell’arco di settant’anni (1950–2017) le vittime riconoscibili di abusi sono 6.875, di quali 2.489 in istituzioni educative legate alla Chiesa cattolica. Sono stati riconosciuti 1.880 abusatori, per il 96% maschi. L’accusa riguarda il 7% dei preti cattolici, con picchi impressionanti nella congregazione di San Giovanni di Dio (40%) e di altre congregazioni dedite all’educazione.
L’attuale presidente della conferenza episcopale e vescovo di Melbourne, Denis J. Hart, commentava: «Profondamente consapevole del male e del dolore causati dall’abuso, ancora una volta offro le mie scuse a nome della Chiesa cattolica. Mi dispiace per il danno che è stato fatto alla vita delle vittime di abusi sessuali. Come ha detto di recente papa Francesco “è un peccato che ci fa vergognare”».
Per la Chiesa locale è stato un momento doloroso, anche perché il cammino di consapevolezza era partito da un paio di decenni. La Conferenza episcopale ne discute nel 1988, nel 1990 viene stilato un protocollo di convenzione, nel 2000 sono i vescovi australiani a sollecitare i responsabili vaticani sul problema. Un processo di coscientizzazione a cui non è stato estraneo neppure il card. Pell, che poco dopo è diventato l’accusato e il simbolo negativo di una Chiesa che non ha ascoltato le vittime, ha semplicemente spostato i predatori, senza custodire memorie negli archivi.
Le scelte di Roma
Ora l’indirizzo romano è in asse con le attese. Dal 24 febbraio, un anno dopo il grande incontro dei vescovi dell’anno scorso (“La protezione dei minori nella Chiesa”; 21-24, 02.2019) si è avviato un gruppo di lavoro di esperti di diritto canonico. Hanno il compito di aiutare le conferenze episcopali a redigere le loro “linee guida” in tema di abusi sessuali. Sarà coordinato da Andrew Assopardi e farà riferimento al sostituto della Segreteria di stato, mons. Edgar Peňa Parra.
Dopo l’incontro dell’anno scorso, le decisioni più rilevanti sono state pubblicate a tre riprese, cioè nuove normative per le linee guida, nuove leggi per la Città del Vaticano e il suo personale, il documento Voi siete la luce del mondo, la rimozione del segreto pontificio sulla questione degli abusi. È dato come imminente un Vademecum per i vescovi, un sussidio per facilitare le procedure di fronte ai casi di abuso.
Tornando al card. Pell, se l’Alta Corte dovesse confermare la condanna, la sua vicenda diverrebbe il sigillo simbolico di un’intera stagione della Chiesa in Australia, la conclusione drammatica della sua vita. Se, invece, il verdetto fosse favorevole, allora, pur permanendo l’assoluto e provato scandalo dei comportamenti di numerosi uomini di Chiesa, il suo “caso” si staccherebbe dal “simbolo” e la sua vicenda personale verrebbe riscattata. E troverebbe un singolare parallelo con il proscioglimento della Corte di appello di Lione verso il card. Philippe Barbarin del 30 gennaio scorso, scagionato dall’accusa di correità nella mancata denuncia di un predatore.
Un episodio minore, ma anch’esso significativo è la decisione del procuratore generale del Cantone di Friburgo (Svizzera) di non luogo a procedere verso il vescovo Charles Morerod, accusato da un’associazione di liberi pensatori di intralcio all’azione penale nel caso di denunce di abusi verso un prete della diocesi. Segnali, seppur fragili, di una stagione oscura che i credenti sperano di mettere progressivamente alle proprie spalle.
16 marzo 2020
Lorenzo Prezzi
http://www.settimananews.it/chiesa/pell-caso-simbolo/