Covid-19. Gli studi biomedici e lo studium Christi

By 25 Marzo 2020Coronavirus

Perché il coronavirus dà sintomi diversi da persona a persona? Perché differenze così grandi tra paesi nei numeri dei contagiati? A che punto sono farmaci e vaccino? Soprattutto, cosa sostiene la battaglia? Intervista a Roberto Colombo, sacerdote e ricercatore.

«La vita continua, perché è più grande del coronavirus e di noi. Si fermano le attività produttive e commerciali non essenziali e cambiano le modalità di insegnamento nelle scuole e nelle università. Anche i nostri rapporti interpersonali prendono forme diverse. Quello che non cambia, che resta perché è eterno, è l’amore di Dio in Cristo per l’uomo. Studiarlo (secondo l’etimo di stŭdēre, desiderare, cercare) e così (ri)scoprirlo nella nostra vita è urgente, per dare senso, valore, forza alla ricerca sul virus SARS-CoV-2 e alla cura dei pazienti con Covid-19». Lo afferma con decisione don Roberto Colombo, ricercatore di genetica clinica e docente della facoltà di medicina dell’Università cattolica, mentre passa in rassegna alcune delle questioni aperte che riguardano l’infezione virale che si sta diffondendo. Ne affrontiamo alcune insieme a lui.

Anzitutto, che cosa ultimamente sostiene lo sforzo enorme che si sta compiendo per capire come sconfiggere il coronavirus e per curare i casi gravi di Covid-19?

L’impegno è grandissimo, la fatica ancora di più. I giorni e le ore nei Covid-hospital non si contano per medici, infermieri e personale di supporto sanitario. I turni saltano, i riposi sono ridotti al minimo e i mansionari sono scavalcati dall’urgenza di farsi carico comunque delle condizioni cliniche, dei bisogni essenziali e delle domande umanissime dei malati. Nei laboratori di enti pubblici e no profit e di industrie biotecnologiche e farmaceutiche il lavoro di ricerca ferve senza sosta, con intelligenza, passione e collaborazione internazionale aperta. Alcune riviste scientifiche e mediche hanno deciso di accelerare – dando loro una corsia preferenziale nel processo di peer review dei manoscritti e di editing dei lavori accettati – la diffusione dei risultati attendibili degli studi sul coronavirus e la Covid-19, e di rendere immediatamente accessibili gli articoli pubblicati online, come il New England Journal of Medicine, The Lancet, Nature e il Journal of the American Medical Association.

Le motivazioni contingenti, penultime che reggono la ordinaria dedizione dei medici (passione per il proprio lavoro, deontologia professionale, senso di responsabilità civile, giuste prospettive di carriera, gratificazione personale, remunerazione, ed ulteriori moventi) e dei ricercatori (gusto per lo studio e la scoperta, energia del lavoro in équipe di laboratorio, collaborazioni internazionali, soddisfazioni per la pubblicazione dei risultati, riconoscimento pubblico dei risultati conseguiti e altro ancora) non sono sufficienti. Sono troppo povere, deboli. Serve una ragione non accidentale, ultima per cui muoversi, mobilitare se stessi ancor prima delle risorse a disposizione.

Questa ragione adeguata per stare sul pezzo, per non mollare, nasce dalla risposta alla domanda incensurabile: “Chi sono io per fare tutto questo?”. Quello che stanno (ri)scoprendo medici, infermieri, scienziati e altre figure professionali impegnate in prima linea è che noi siamo “relazione” con altri e con un Altro. «Non può vivere felice chi guarda esclusivamente a se stesso, chi volge ogni cosa al proprio interesse: è decisivo vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso», scrive Seneca nelle Lettere a Lucilio (Epistulae morales V, 48, 2). Si sta facendo tutto quello che succede nei reparti e nei laboratori impegnati sul fronte della Covid-19 – e di più di quello che traspare all’esterno di essi – solo per una amicizia umana, un amore per l’umano che noi siamo e gli altri sono.

Cosa muove questa amicizia che vince la stanchezza, i limiti propri e dei mezzi a disposizione, la delusione per i risultati che si fanno attendere, le astiose critiche di chi non conosce la situazione sul campo, la rabbia di non riuscire a strappare alla sofferenza e alla morte tanti uomini e donne? Su cosa si fonda un simile amore al destino dell’altro come al proprio? È ancora Seneca che si suggerisce la strada per rispondere a questa drammatica domanda: «L’amicizia fa sì che ci sia tra noi due comunanza di tutte le cose» (loc. cit.). Una «comunanza di tutte le cose», non di qualcosa che oggi c’è e domani, terminata l’emergenza, svanisce.

Ci possiamo stringere assieme nei momenti più duri, più minacciosi della vita personale, familiare e sociale – della vita di un popolo e di un paese – solo perché, sempre e in ogni circostanza serena o tormentosa, ciò che ci unisce è più tenace di quello che ci separa. È un Altro che fa essere noi stessi “altri” accanto ad “altri”, eppure non estranei. Nessuno è straniero tra noi, perché apparteniamo tutti ad un Altro, a Dio. Chi porta il camice bianco o la divisa infermieristica, come chi indossa la tuta di sicurezza nei Covid-hospital o nei laboratori di virologia, percepisce di essere fatto della stessa carne, dello stesso sangue, dello stesso animo di chi sta in pigiama su un letto del reparto di degenza o coperto da un telo verde o azzurro in quello di terapia intensiva. Per questo, ultimamente, è la presenza di Cristo nel mondo, l’Emmanuele (in ebraico, Immanu’el: “Dio con noi”), che – anche quando non percepita come tale – regge la tensione, la prova di forza, l’urto delle circostanza della Covid-19.

Si può dedicarsi incondizionatamente agli studia biomedica perché ci sostiene lo studium Christi: la ricerca, il desiderio, la scoperta di una Presenza dentro i rapporti e la realtà della salute e della malattia, della vita e della morte, che rende ragione di ogni ricerca, cura, prossimità, compagnia per l’ammalato e chi teme di ammalarsi.

Lei parla non solo di chi è ammalato di Covid-19, ma anche di chi ha paura di ammalarsi. Cosa stiamo capendo in queste settimane del fatto che non tutti i positivi al tampone per il coronavirus sviluppano i sintomi della malattia e che questi sono estremamente variabili da infettato ad infettato?

Parto dalla seconda parte della domanda. La eterogeneità del quadro clinico delle infezioni virali è una caratteristica di queste patologie contagiose ben conosciuta. Per esempio, il morbillo è una malattia infettiva causata da un virus a ssRNA del genere Morbillivirus (famiglia dei Paramyxovidae) che, quanto a contagiosità, è superiore alla Covid-19, con un tasso di riproduzione basale dell’infezione (R0) che – se non viene corretto al ribasso tenendo conto del numero di coloro che hanno contratto immunità per essere stati ammalati o vaccinati – è stimato tra 12 e 18. Per fermare una epidemia di morbillo serve che circa il 95% della popolazione si sia già ammalata o sia stata vaccinata (è l’ormai noto concetto di “immunità di gregge”).

Anche per le infezioni da Morbillivirus la sintomatologia connessa causalmente alla presenza dell’agente virale nel corpo del paziente – solitamente di intensità lieve o moderata – è variabile. Può restare confinata ad un esantema, simile alle eruzioni cutanee della rosolia o della scarlattina, preceduto da sintomi comuni a quelli di un raffreddore (tosse secca, naso che cola, congiuntivite) e dalla comparsa delle caratteristiche “macchie di Köplik”, in presenza di una febbre ingravescente, sino ad arrivare a comprendere (per un totale di circa il 30% dei casi di morbillo) anche diarrea, otite, bronchite, bronchiolite e polmonite. Più raramente (in particolare, negli adulti, nei bambini malnutriti o in soggetti immunocompromessi) possono comparire polmonite interstiziale a cellule giganti mononucleate (chiamata “polmonite di Hecht”), ulcerazione corneale, cheratite, cecità, miocardite, epatite, glomerulonefrite acuta transitoria, polmonite batterica ed encefalomielite. Ma sono documentati anche casi di infezione asintomatica da Morbillivirus.

La Covid-19 non è una eccezione alla regola delle malattie virali, ma una ulteriore conferma. Quale può essere la ragione per cui alcuni soggetti che vengono a contatto anche ravvicinato con pazienti infetti contraggono la malattia, mentre altri no? In alcune famiglie si è osservato che, pur vivendo tutti nello stesso ambiente domestico, in presenza di un familiare contagiato da SARS-Cov-2 uno o più membri si ammalano, mentre altri non manifestano alcun sintomo. Vi sono possibili spiegazioni che sono legate a fenomeni ben noti alla clinica delle malattie infettive.

Anzitutto lo sviluppo di una infezione dipende dall’inoculo nel corpo del soggetto sano dell’agente infettivo, in questo caso un virus. Il valore di ID50 (la dose di particelle virali – i cosiddetti virioni – che è in grado di infettare e potenzialmente far sviluppare la malattia nel 50% dei soggetti entrati a contatto con il virus) varia in funzione dell’agente virale e del veicolo di trasmissione, come il contatto diretto delle mucose di bocca, naso e occhi con microgocce di liquidi biologici emessi dalle cavità aeree di un soggetto infettivo. Maggiore è l’esposizione a un numero elevato di virioni, più alta è la probabilità di infettarsi. Quest’ultima è inversamente proporzionale alla distanza mantenuta tra il potenziale infettante e il suscettibile di infezione: nel caso del coronavirus, un metro o poco più rappresenta una ragionevole misura di prevenzione, che non compromette la possibilità dei rapporti sociali interpersonali indispensabili.

Occorre però tenere presente, per comprendere la variabilità interindividuale nel contrarre la Covid-19, anche la differente capacità naturale di risposta immunitaria delle persone che entrano a contatto con il coronavirus (parliamo di “capacità naturale”, perché sinora non abbiamo la possibilità di una risposta stimolata da una vaccinazione specifica contro il SARS-CoV-2). La forza con cui il nostro corpo risponde ad un attacco virale dipende da diversi fattori di natura genetica (polimorfismi, studiati dalla immunogenomica e dalla immunogenetica), epigenetica (chemochine e interleuchine) e cellulare (linfociti B, T killer e T citotossici), ma anche legati all’età (i bambini e i giovani mediamente reagiscono meglio degli anziani, nei quali la risposta immunitaria può essere meno pronunciata), al sesso, alle condizioni metaboliche (per esempio, il diabete mellito) e allo stato nutrizionale, alla presenza di patologie (come i tumori) o terapie immunodepressive, alla precedente esposizione ad agenti patogeni batterici e/o virali, e all’assunzione di sostanze che compromettono la capacità di difesa immunitaria dell’organismo.

Nessuno di noi ha una capacità di contrattaccare i virus identica all’altro, anche se esistono categorie di persone più deboli ed altre più forti nella lotta del loro organismo contro le infezioni.

È sempre acceso il dibattito – non privo di qualche venatura polemica – sulla apparente discrepanza tra la percentuale persone decedute “per” o “con” l’infezione da coronavirus nelle regioni più colpite del nostro Paese rispetto a quelle dichiarate in altre nazioni europee e asiatiche, che risultano essere inferiori. Da cosa nasce questa “guerra dei numeri”?

Quando si confrontano dati quantitativi che fanno riferimento ad osservazioni di fenomeni naturali che provengono da luoghi differenti, popolazioni diverse e fonti governative e indipendenti non identiche, occorre tenere presente alcune categorie di variabili obiettive, investigative, statistiche, comunicative e politiche. Parto dalle ultime due, che sono tra loro correlate.

Se è vero che, attualmente, la comunicazione è divenuta globale e accessibile a tutti, è innegabile che essa è sottoposta a crescenti e più serrati controlli da parte di chi detiene il potere, democraticamente o despoticamente conquistato. Quando si tratta di dati “sensibili” sotto il profilo del consenso dei cittadini verso leggi e decreti che ne modificano le abitudini o ne limitano le libertà (comprensibilmente, le più difficili da far accettare), la loro comunicazione può avere effetti pesanti sull’ordine pubblico e sulla risposta dell’economia, della finanza, del lavoro e dello studio ad una emergenza sociale.

Per questo, la comunicazione pubblica viene sempre filtrata e dosata nella rappresentazione formale se non nel contenuto sostanziale ‒ con saggezza politica e senso di responsabilità civica nei regimi democratici, con spregiudicatezza e disumana strumentalità in quelli totalitari – ed è attualmente impossibile avere un quadro non mediato dalla comunicazione ufficiale (che assumiamo prima facie come gestita bona fide): solo la storia, quando saranno aperti gli archivi dei ministeri della Salute e delle Politiche sociali delle nazioni interessate, potrà fornire un giorno documentazione per ricostruire i dati socio-sanitari disponibili ai governanti in un determinato momento dell’epidemia. Ma questa dimensione politico-comunicativa può non essere la ragione principale della discrepanza sul valore percentuale dei decessi.

Dobbiamo considerare soprattutto il ruolo delle variabili nosologiche, dei referti diagnostici (cartelle cliniche) e della causa di morte riportata nell’apposita scheda che il medico curante, il direttore sanitario di un ospedale o il medico necroscopo compilano e trasmettono all’autorità civile, che sono alla base dei dati raccolti. Rimane infatti aperta la questione sulla causa del decesso dei pazienti risultati positivi al test molecolare del tampone rinofaringeo mentre erano in vita o del rinvenimento post mortem del RNA virale. Oggi, attraverso i mass media, la domanda risuona così: Quante persone sono morte a causa della Covid-19 e quante sono decedute per una causa che non è questa malattia, ma sono state comunque contagiate da essa?

La questione riflette il dibattito teorico e pratico in tanatologia sui concetti eziologici e medico-legali di “causa immediata”, “causa primaria”, “causa remota”, “causa concomitante/sopravvenuta” ed altri ancora. Non è immediato poter discernere la morte “per” complicanze gravissime dell’infezione dovuta al coronavirus (quasi sempre una polmonite bilaterale interstiziale rapidamente progressiva, distress respiratorio acuto [ARDS] e insufficienza respiratoria terminale) da una morte “con” infezione da coronavirus, ma dovuta a patologie pregresse a prognosi infausta che già compromettevano funzioni fisiologiche essenziali per l’omeostasi corporea. Solo un’attenta ispezione delle cartelle cliniche di ciascun deceduto risultato positivo al SARS-CoV-2 può sciogliere questo dubbio, ma la loro acquisizione da parte degli organi preposti al monitoraggio epidemiologico della Covid-19 in ciascuno stato e l’analisi dei dati in esse contenuti da parte di una équipe clinica specialistica non è realizzabile in tempi brevi, mentre l’emergenza assorbe uomini ed energie per priorità più elevate, come la cura dei malati e la ricerca di trattamenti appropriati.

La spiegazione più economica, parsimoniosa dal punto di vista dei fattori da chiamare in causa – che soddisfa al cosiddetto “rasoio di Ockham”, principio euristico che valorizza l’equilibrio tra la semplicità e il potere predittivo di una ipotesi – resta quella di una sottostima, per quanto concerne il campione regionale italiano di Covid-19, del denominatore della frazione di decessi per numero di contagiati (tasso di letalità di una infezione).

Per diverse ragioni, il numero di persone che risulterebbero positive per il coronavirus se fossero sottoposte al test del tampone rinofaringeo per l’RNA virale (o, meglio, se lo fossero state prima di eventualmente negativizzarsi dopo un certo tempo) potrebbe essere molto superiore – anche di un ordine di grandezza, secondo studi di proiezione comparativa – rispetto alla stima dei contagiati sinora disponibile per le regioni italiane più colpite dall’epidemia. Così, se ricalcolassimo il tasso di letalità sulla base dei valori reali degli infettati (numero attualmente non disponibile), si potrebbe scendere dal 12,1% anche al di sotto del 5,8% di Wuhan, avvicinandoci al 3% di diversi paesi, se non allo 0,7% della Cina (esclusa Wuhan) o all’1,1% della Corea del Sud.

Nonostante in Italia il numero dei tamponi effettuati sia elevato (quasi 300 mila), la diffusione del contagio – probabilmente iniziato prima che in altre parti d’Europa – ha raggiunto un numero di persone assai superiore ai 64 mila che sono risultati positivi al test per il coronavirus: potrebbero essere anche 500-600 mila (si tenga presente che il numero di contagiati ogni anno da infezioni influenzali e simil-influenzali è superiore a 5 milioni, con 8-10 mila decessi collegati alle complicanze della malattia stagionale). La presenza tra gli infettati da SARS-Cov-2 di numerosi soggetti asintomatici o paucisintomatici, un aspetto sicuramente positivo dal punto di vista prognostico ma preoccupante sul versante epidemico (anche questi pazienti invisibili, i “casi sommersi”, contribuiscono a trasmettere il coronavirus), rappresenta uno svantaggio diagnostico, in quanto non sono candidati per il test molecolare, salvo i casi in cui sia tracciabile un loro contatto fisico con un paziente sintomatico.

Infine, non si possono escludere – come autorevoli studiosi hanno proposto – anche altre cause del tasso elevato di letalità sinora riscontrato in alcune regioni italiane, tra le quali trova un certo consenso l’età più avanzata della popolazione esposta al virus, che la rende maggiormente suscettibile alla sintomatologia più grave e al possibile esisto infausto, anche in ragione della frequente presenza in essi di comorbidità (in Germania, l’età media dei contagiati è di 46 anni; in Italia di 63 anni).

Le speranze di poter fronteggiare la pandemia di Covid-19 riducendo le sofferenze per le popolazioni duramente colpite e risparmiando vite umane sembra legata, oltre alle misure di contenimento del contagio attraverso la drastica riduzione dei contatti fisici tra le persone, alla possibilità di disporre di farmaci efficaci e di un vaccino profilatticamente valido. Quali sono le ultime novità su questi due fronti della ricerca?

Due sono gli approcci farmacologici maggiormente promettenti: quello degli antivirali e quello dei principi attivi contro le complicanze più gravi della malattia. I primi sono chemioterapici che impediscono ad un virus di moltiplicarsi all’interno del corpo umano, bloccando o rallentando la sua replicazione all’interno delle cellule ospiti. I secondi non interferiscono con il ciclo riproduttivo del virus, ma contrastano l’insorgenza, l’estensione o la disfunzionalità degli effetti della presenza della sua presenza, che innescano processi patologici a livello di tessuti e organi bersaglio (nel caso del SARS-Cov-2, quelli delle vie aeree superiori e inferiori). I sintomi non dipendono solo dalla replicazione del virus, che provoca lesioni nei tessuti, ma anche dalla risposta dell’organismo all’infezione, che può danneggiare uno o più organi.

Diversi antivirali già noti sono stati utilizzati per il trattamento dei pazienti Covid-19 in Cina, Italia e altri paesi. Sviluppati per combattere altri virus – inclusi i betacoronavirus “fratelli” del SARS-Cov-2 che causano la MERS e la SARS e quelli che provocano la malattia da virus Ebola, la febbre Zika, l’AIDS ed altre infezioni virali – questi farmaci hanno sinora dimostrato, da soli o in associazione, qualche efficacia in un numero di casi anche rilevante, ma il loro effetto non appare soddisfacente e generalizzabile.

Sinora non esistono antivirali elettivi contro il Sars-CoV-2. In pratica, ci si basa principalmente sull’esperienza cinese. Si continuano ad usare formulazioni classiche anti-HIV a base di Lopinavir e Ritonavir (entrambi della Abbott: il primo è un inibitore delle proteasi e il secondo un potenziatore dell’azione inibitrice), ma anche un antivirale sperimentale di fase III, il Remdesivir (GS-5734: un analogo nucleotidico che blocca la biosintesi del RNA virale), prodotto dalla Gilead Sciences per combattere la malattia di Ebola e successivamente usato anche contro la SARS e la MERS, e sinora distribuito gratuitamente (secondo la procedura di “uso compassionevole”) dall’azienda farmaceutica agli ospedali che ne fanno richiesta.

In questi giorni è venuto alla ribalta in Italia un altro antivirale – già utilizzato nei mesi scorsi in Cina per il trattamento dei pazienti Covid-19 – di cui è stato chiesto con insistenza l’avvio di una sperimentazione clinica anche nel nostro Paese, che l’Agenzia governativa italiana del farmaco (Aifa) sta approvando e regolando. Si tratta dell’Avigan (il principio attivo è il favipiravir, una piccola molecola di 6-fluoro-3-idrossi-2-pirazinecarbossammide), sviluppato originalmente dalla giapponese Toyama Kagaku Kōgyō come anti-influenzale. Ha dimostrato una certa attività, negli studi sugli animali, contro il virus Zika e quello della rabbia negli studi sugli animali. Vi sono scarse evidenze scientifiche e cliniche della sua reale efficacia per il trattamento di infezioni da altri virus: anche il numero di casi di Covid-19 trattati e seguiti clinicamente in Cina in due studi è troppo limitato per poter giungere a qualche conclusione solida. La sperimentazione italiana potrà contribuire a fare chiarezza.

Per quanto concerne il secondo approccio, quello di contrastare le conseguenze patologiche dell’infezione virale (non alternativo, ma terapeuticamente complementare al primo), oltre agli antipiretici ed alla somministrazione di ossigeno e di liquidi, trovano sinora ampio impiego la clorochina e l’idrossiclorochina, farmaci usati per il trattamento della malaria, di altre parassitosi e dell’artrite reumatoide (solo la seconda).

Prosegue il trattamento sperimentale con Tocilizumab (Hoffmann-La Roche), iniziato in Italia a Napoli (dopo evidenze positive giunte dalla Cina), presso l’ospedale Cotugno, e ora controllato dallo studio nazionale Aifa denominato TOCIVID19 (al 20 marzo 2020 risultano registrati 281 centri clinici di sperimentazione, di cui 58 hanno già inserito almeno un paziente, per un totale di 411 pazienti arruolati). Il Tocilizumab è un anticorpo monoclonale immunosoppressore attivo contro il recettore dell’interleuchina-6 (IL-6R), studiato per il trattamento delle malattie autoinfiammatorie, come l’artrite reumatoide e l’artrite idiopatica giovanile sistemica.

Vi è molta enfasi massmediatica su “nuovi farmaci” (in realtà, “nuove applicazioni di farmaci” per una indicazione diversa, in questo caso la Covid-19) che possano arrestare l’infezione da coronavirus nei pazienti contagiati o, almeno, contenere le complicanze respiratorie più gravi in questi malati. Ma occorre grande prudenza, per non ingenerare nei cittadini l’illusione che siamo già disponibili per un uso clinicamente efficace e sicuro. Al fine di valutare efficacia e sicurezza servono studi clinici controllati, per i quali è raccomandabile – come in altre sperimentazioni farmacologiche – includere un gruppo di “controlli” (soggetti che non stanno assumendo il medesimo farmaco). Questo perché si osservano numerose remissioni spontanee della sintomatologia Covid-19 e bisogna evitare l’inquinamento dei risultati da parte di associazioni non causali e/o “fattori di confondimento” (confounders).

Riguardo ad un vaccino per la Covid-19, dobbiamo registrare che sono in corso oltre 20 progetti di ricerca in diversi paesi del mondo, inclusa l’Italia. Particolarmente avanzati sembrano essere gli studi olandesi e israeliani. Il 16 marzo è iniziato presso il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid, Bethesda, Stati Uniti), diretto da Anthony Fauci, uno studio di fase 1 su un vaccino che si è mostrato sicuro ed efficace in modelli animali. Questa prima sperimentazione clinica controllata dovrebbe coinvolgere 45 persone adulte e sane e i primi risultati sono previsti entro luglio-agosto. Si tratta di un tempo record per un vaccino, mai raggiunto prima d’ora.

Ma questo non significa che, anche se i risultati preliminari saranno positivi, il vaccino possa essere subito approvato e reso disponibile su vasta scala per le popolazioni più esposte al contagio. Serve, successivamente, che il numero di persone coinvolte nella sperimentazione cresca fino ad arrivare anche ad alcune migliaia di partecipanti (nella cosiddetta “fase 3” dello studio). Si può cercare di accelerare questo processo investigativo a motivo della urgenza di arginare il contagio dedicando un maggior numero di sperimentatori e investendo somme ingenti di denaro, ma non si può violare il principio etico fondamentale della ricerca medica, che è quello di precauzione (Primum non nŏcēre; aforisma attribuito al medico inglese Thomas Sydenham, 1624‒1689, ricordato come “Ippocrate britannico”). La sicurezza è qualità imprescindibile di un vaccino. Nelle più generose previsioni, le prime dosi di vaccino approvato e distribuibile su vasta scala potrebbero essere disponibili entro la fine di quest’anno e aiuterebbero a prevenire epidemie di ritorno nel corso del 2021.

Ma è importante sottolineare il contenuto di elevata innovazione biotecnologica (in particolare nel campo delle nanotecnologie biomediche) che caratterizza diverse linee di ricerca per un vaccino contro la Covid-19, come quella sviluppata nei laboratori della società Moderna (Cambridge, Massachusetts), basata su nanoparticelle che incapsulano l’mRNA-1273, una sequenza di acido nucleico che codifica una forma pre-fusione stabilizzata della proteina Spike del virus SARS-Cov-2.

A vincere saranno la creatività, l’ingegno dei ricercatori nello studiare nuove “armi” contro il coronavirus e la tenacia dei medici e degli infermieri nel realizzare forme di cura della persona dei pazienti affetti da Covid-19, senza mai abbandonarli nella solitudine della lotta contro la malattia e la morte, ma facendo loro sperimentare una prossimità possibile, concreta, fatta di azioni, gesti, parole, silenzi e sguardi che si incontrano tra chi sta in piedi accanto al letto e chi è supino sul letto. Tutto questo non senza lo studium Christi – come ricordavo all’inizio – perché senza un rapporto con Lui non possiamo fare nulla (cf. Gv 15,5). Un rapporto anche solo desiderato, domandato. Un “voto” (secondo il significato originario del termine latino votum) che è possibile a tutti, anche a chi non pratica ormai più il cristianesimo.

Ci salverà solo Dio da questa drammatica situazione che incombe sul mondo?

Sì, ma non senza di noi. Non senza lo straordinario e commovente impegno di tutti, che vede in gioco la libertà di ognuno, per quello che gli è chiesto di fare. Fosse anche solo stare a casa e lavorare o studiare nella propria stanza. O dare una mano agli anziani, ai bambini e agli ammalati che con più fatica reggono questa condizione di romitaggio dentro alla città. Come recita il titolo del bel film di Jean Delannoy, Dieu a besoin des hommes (“Dio ha bisogno degli uomini”; 1950), tratto da un romanzo Un Recteur de l’île de Sein dello scritto francese Henri Queffélec, ispirato da un episodio reale avvenuto nel 1850. Dio ha bisogno della nostra libertà, della nostra decisione, per far rifiorire il mondo.

San Giovanni Calabria diceva che «la Provvidenza conosce solo uomini in cammino», che non si fermano quando la fatica si fa sentire, la strada appare lunga e in salita, e il buon combattimento contro le minacce che attentano alla vita nostra e dei nostri fratelli e sorelle si fa più serrato. Con operosità nella fede, sant’Ignazio di Loyola viveva e incoraggiava chi gli stava accanto così: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo che in realtà tutto dipende da Dio». E santa Giovanna d’Arco, l’indomita figlia di contadini francesi e patrona della sua patria, non cessava di ripetere: «Bisogna dare battaglia perché Dio conceda la vittoria».

Rachele Schirle

25 marzo 2020

Covid-19. Gli studi biomedici e lo studium Christi