Chiusi in quarantena, anche i cristiani come animi sbandati si intrattengono via chat e sbandano ancora peggio: chi religioso, chi complottardo, chi banditore di propaganda di partito… Ma la fede è un’altra cosa.
Grazie Papa che ti sei appellato ragionevolmente al Mistero che fa tutte le cose. E che in Cristo ha rivelato la sua faccia di Nostro Salvatore. Grazie per la benedizione Urbi et Orbi.
Oggi siamo tutti nudi come la piazza San Pietro del Papa. Siamo foglie. Oggi (ieri) gli Stati Uniti hanno superato la Cina e conquistato il primo posto nella classifica dei paesi più infettati dal coronavirus. A nostra volta, superata la Cina, restiamo stabili al secondo posto, con il resto d’Europa – e specialmente Spagna e Germania – in forte recupero.
Non siamo alle Olimpiadi di Tokyo, ovviamente. Ma il medagliere olimpionico è crudele. Come l’aprile del poeta T. S. Eliot che sta per entrare in calendario. Eliot vedeva il mondo, e cedeva al talento poetico che lo dominava, con il giudizio della fede. La fede, non l’ottimismo, come abbiamo appena sentito dall’attore Andrea Carabelli vibrare nella recitazione di una lettera scritta al tempo della prigionia alla moglie Olga da Vaclav Havel – ne abbiamo già parlato qui – poeta, drammaturgo, dissidente al totalitarismo comunista e perciò con tutta una vita piena di reclusioni ed emarginazioni, infine trionfante presidente della democrazia più radiosa d’Europa.
La fede. Che è certezza a partire da un ideale vissuto, qui, adesso, nel presente. Non l’ottimismo. Che è la superficie della dabbenaggine. Perciò, così come non #andratuttobene, non ha senso discutere di chiese aperte e chiuse, di Messe sui tetti o sottoterra, se non si sente vibrare che la fede è tigre che si avventa sulla carne della contemporaneità. E giudica. Non coniglio che da un passato meraviglioso si fa spezzatino di conforto. E oppio del popolo.
In sé, Cristo suppongo abbia introdotto sulla terra un Dna dove la ragione è veramente porta spalancata sugli accadimenti. Non un pregiudizio buono e uno scaldino a prescindere da quel che succede. Per questo, non è tanto edificante e, anzi, mette un po’ malinconia, avvicinarsi alla sfilza degli isolati bravi ragazzi e brave persone che ci offrono testimonianza di quanto Gesù si muova agilmente nei loro cuori stropicciati dai dolori procacciati dal virus, in loro e nel loro immediato prossimo.
Cosa voglio dire? Voglio dire che il prete che insegna online partendo dall’esperienza di pesantezza, noia e costrizione a stare in casa che stanno facendo i nostri ragazzi, e mostra loro un “punto di fuga” autentico, è molto più istruttivo, edificante e liberante dei tg televisivi o dei buoni cristiani che ogni giorno raccontano o testimoniano nel web storie piangenti o edificanti sul coronavirus. Per vedere meglio la condizione della vita all’epoca del virus, devi uscire dall’esempio morale e ritornare a bomba nell’estasi che regge il mondo.
Nel caso di don Marcello, liceo Collegio della Guastalla, questo prete molto allegro (e si direbbe perfino sempliciotto), dimostra molta perspicacia quando porta i suoi studenti (stando ciascuno a casa propria dietro il computer) ad ascoltare in tema di pesantezza, noia e costrizione, un monaco di clausura. E di come – racconta il Monaco – uscendo da un fosso dove aveva lavorato sognando un altrove geografico frustrato da un presente di erbacce, zanzare e fetore di marcio, tutta la pesantezza, noia e costrizione se ne andò grazie a un giudizio nato da un’osservazione. Cioè l’aver fatto caso che il verde degli alberi si intona bene con l’azzurro del cielo. Esperienza di libertà per essersi “sentito” (giudicato) toccato da questa bellezza.
Ha imparato qualcosa di nuovo, il monaco. Come adesso lo impara lo studente che ascolta. Si impara che Copacabana non può essere Copacabana, se la Bellezza non è parte del marcio che tocca ciascuno di noi in questo virus e in questa reclusione.
Invece, il peggior danno viene dal migliore strumento che ci tiene igienicamente insieme. Il così detto “social“ che esattamente come nelle famose “primavere arabe” produsse l’errore di prospettiva di presumere di cambiare il mondo con parole alate, sospinte nell’aria dal Generale delle illusioni beffarde Barack Obama. Così, in questa fase di arresti domiciliari forzati e peste nera, animi sbandati si intrattengono e sbandano ancora peggio con Generali delle stupidaggini che circolano nelle chat a misura del tic di ciascuno: chi religioso, chi complottardo, chi banditore di propaganda di partito, chi venditore e basta…
Ma la fede che insiste sulla vita! La fede che vive è stare agli arresti domiciliari sul basto di una certezza. È vigilare nella baracca dei nostri corpi sul Dio che ci precede e viene sempre, nel bene, nel male, nell’autocoscienza come nell’incoscienza. Ci siamo detti un po’ questo col sindaco Beppe Sala, ieri come talvolta capita tra avversari (ben conscio della distanza che c’è tra un sindaco e l’ultimo peones periferia).
La prima giustizia che si rende a se stessi e alla comunità, è la bellezza di scoprirci limitati. È la stessa cosa dello scoprire la bellezza del verde sull’azzurro. Perciò è un peccato questo mondo pieno di istruttori. Ma dove nessuno insegna più ad aver vergogna. Nessuno ci pensa e tutto predica il contrario. Tutti giusti, tutti padreterni. Dai tribunali alle chiese. Dai giornali alle università. Sbagliato. Così si sprecano solo tempo ed energie. Mentre solo la fede è. La fede che impara e sperimens. La fede che fa vivere senza ombrello sotto il temporale.
Luigi Amicone
28 marzo 2020