Il coronavirus sta mettendo alla prova il vecchio continente sotto il profilo sanitario, sociale, economico, istituzionale. Per un giudizio più articolato occorre però entrare nei meccanismi che regolano i rapporti Ue-Stati membri, soppesare quanto ha fatto l’Unione – e ciò che resta da fare – verificando le responsabilità in capo ai governi nazionali. Con un occhio particolare alla situazione italiana.
Coronabond o Mes? Europa assente o presente? Germania buona o cattiva? Si può leggere la realtà attuale con le sole opzioni del bianco e del nero, senza sfumature, senza zone grigie? Questa crisi epocale – che nessuno aveva previsto e per la quale nessuno era realmente preparato – sta attraversando il mondo, lasciando sul terreno morti, malattia, nuova povertà: per comprenderla a fondo e per agire al fine di contrastarla efficacemente occorrerebbero conoscenze (scientifiche), prudenza, volontà di coglierne e considerarne i molteplici aspetti correlati tra loro. Solo così le risposte da mettere in campo, in materia sanitaria, sociale, economica, relazionale, potranno essere vincenti. E la nuova crisi globale che ci si presenta, necessita – così come quelle recenti e tutt’altro che superate, del debito sovrano, delle guerre, delle migrazioni… – di azioni coordinate in un orizzonte internazionale. Come è stato più volte sottolineato, il Covid-19 ci ha mostrato un mondo “piccolo”, correlato, fragile, le cui sfide richiedono collaborazione e solidarietà; un mondo, quello di domani, che per forza di cose sarà differente da quello che finora abbiamo abitato.
I moniti in tal senso non mancano. Papa Francesco, avendo nel cuore le sorti del pianeta, ha affermato: “non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”. Il Presidente Mattarella, guardando all’Europa, ha sottolineato: “Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse”.
Dunque, l’Europa? Anche in questo caso bisogna distinguere – per non cadere in facili e colpevoli populismi – tra i poteri e le responsabilità dell’Unione europea e quelli degli Stati membri. Si scoprirebbe così che le istituzioni Ue hanno già imboccato, non senza fatiche e ritardi, la via della risposta comune in ambito sanitario ed economico.
In questo senso si iscrivono gli interventi per la circolazione nel mercato unico delle attrezzature sanitarie e degli alimenti, i fondi stanziati per la ricerca (cure e vaccino), il controllo dei voli e delle frontiere esterne, lo stanziamento di 37 miliardi dai fondi comunitari per sostenere le imprese, il via libera agli aiuti di Stato per dare respiro all’economia reale, la sospensione delle regole del Patto di stabilità e crescita allo scopo di consentire una illimitata spesa pubblica nazionale. Mancano – e qui il 26 marzo si è incagliato il Consiglio europeo, dove siedono i leader nazionali – l’istituzione dei bond, tecnicamente preferibili al Mes-Fondo salva Stati, e la concertazione di un piano di investimenti straordinario per rinforzare le spalle dell’intero tessuto produttivo e commerciale dei Ventisette in grado di tener testa a competitori mondiali della stazza di Cina, Usa, India, Russia, Giappone, Brasile e molti altri.
Aveva avuto amplissima risonanza, soprattutto nella direzione della spesa pubblica anti-crisi, la dichiarazione di Mario Draghi al “Financial Times”: l’ex presidente della Banca centrale europea aveva indicato la necessità di lasciare mano libera agli Stati affinché immettessero risorse fresche e abbondanti nelle rispettive economie in deroga alle (buone) regole riguardanti il controllo di deficit e debito pubblico. Sulla medesima posizione – fondata su ragioni finanziarie e sul principio di solidarietà – si erano ritrovati Christine Lagarde (dopo un grave scivolone) alla guida della Bce, Ursula von der Leyen, capo della Commissione Ue, e David Sassoli, presidente dell’Europarlamento. Ma proprio la solidarietà, soprattutto quando si tratta di mettere mano al portafogli, ha spaventato i governi di Austria, Paesi Bassi, Finlandia e – per certi aspetti – Germania, innalzando un nuovo muro verso quei Paesi (Italia, Francia, Spagna e molti altri) che chiedono una rapida mobilitazione comune per evitare che il coronavirus generi anche una pesantissima recessione, con fabbriche chiuse e un’impennata incontrollabile della disoccupazione e della povertà sociale.
I 15 giorni che il Consiglio Ue ha stabilito per una decisione in tal senso, dovrebbero dar ragione all’Italia e torto alla Germania e soci? Non è questa la sola posta in gioco.
La creazione degli eurobond (o coronabond) o l’utilizzo del Fondo salva Stati, non metteranno al riparo da altri impegni e conseguenze cui non ci si potrà sottrarre. Anzitutto si tratta – bond o Mes – di completare l’Eurozona, ponendo alle spalle dell’euro una vera governance economica e finanziaria. La quale a sua volta richiede convergenza delle politiche fiscali e di bilancio e la necessità di colmare il divario di sviluppo e competitività fra i Paesi dell’area della moneta unica. Inoltre, si tratta di considerare che gli auspicati interventi finanziari in deroga alle regole del Patto lasceranno a diversi Paesi, in primis l’Italia, conti pubblici ancora più dissestati, il cui prezzo ricadrà (sotto forma di interessi da pagare e di rigorose riforme da intraprendere, a partire da welfare e pensioni) sulle future generazioni.
Detto questo, al momento servono convergenza politica, spesa pubblica e solidarietà. Come ha scritto Mauro Magatti su “Avvenire”: “l’Europa è oggi di fronte a questo bivio. O prende con coraggio la strada di una maggiore integrazione, aprendo così il proprio futuro (attraverso, ma ben oltre, i Reconstruction Bond) oppure è destinata a disgregarsi in preda agli egoismi interni. Nell’illusione, sempre risorgente nella storia, che i forti possono salvarsi a danno dei deboli”. Per non disintegrarsi l’Europa ha bisogno di un maggior grado di integrazione europea. I nazionalisti se ne facciano una ragione.
1 aprile 2020
Gianni Borsa